Capitolo dieci

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Una foglia si stacca dal ramo e si libra leggera nel vento. Addio. L'albero che le ha dato la vita non la rivedrà mai più. Amo l'autunno. Malinconico. Silenzioso. Immobile. Lo sguardo perso su un panorama avvolto dalla foschia, in attesa di un lungo sonno che lo ibernerà fino al passaggio del freddo inverno. Le luci della città si smorzano, una dopo l'altra, come tessere di un domino. E come luminarie natalizie, si accendono le stelle. Mi lascio catturare dal loro fascino, mentre il cuore palpita, di fronte al senso di smarrimento per tale maestosità.

Nell'oscurità, in un angolo del cortile illuminato dalla luce lunare, con la schiena appoggiata alla grata di ferro semiaperta del cancello, se ne sta immobile ed eretta una figura d'uomo. Le lunghe gambe sono leggermente divaricate; le braccia distese lungo il corpo; le mani nascoste nelle tasche dei pantaloni; la testa appena inclinata e lo sguardo orientato nella mia direzione.

Mi ci vuole un po' per mettere a fuoco la fisionomia di quel volto, poi mi fiondo giù per le scale e, arrivata davanti a quell'ombra, resto immobile. Mi lascio pervadere da un gran senso di delusione quando mi accorgo che non c'è nessuno ad aspettarmi, se non i rami di un albero che si agitano al vento. Continuo a fissare l'ombra, mentre la delusione lascia lentamente il posto alla vergogna. Ho dato ascolto all'istinto che ha offuscato la mia mente, rendendola prigioniera di un'illusione. La vergogna lentamente lascia il posto allo sconforto che sento discendere su di me come un soprabito insopportabile, ogni volta che la consapevolezza mi strappa via dal sogno, scaraventandomi brutalmente nella realtà. Dopo aver tirato un sospiro di amarezza, mi volto e torno indietro.

«Cercavi me?», domanda una voce nel buio.

Resto in ascolto, diffidente.

Quell'ombra fa un passo avanti e un riflesso di luna l'abbaglia. «Pensavi fossi un sogno?»

«Non dirmi che ho perso la testa per il tuo spirito di patata.»

«Ne vai pazza» sogghigna lui, malizioso. «Vieni. Ti faccio vedere una cosa». Gabriel si avvicina ad un'auto, apre la portiera del passeggero, con la sua consueta e nobile galanteria e mi fa cenno di salire. Mette in moto e s'inserisce nel flusso del traffico, quasi senza guardarsi attorno; svolta e scarta le auto in sosta, fino a imboccare la strada principale.

Lui è silenzioso come lo sono io, troppo eccitata per dire qualcosa di sensato; il mio sguardo, invece, è inchiodato ad osservare intento il percorso che si schiude davanti a noi. Passano pochi minuti, poi, i miei occhi sono incollati su di lui, come quelli di un bambino sulla vetrina di un negozio di giocattoli. Lo esamino in silenzio, sembra concentrato sulla guida, ma, ad un tratto, inizia a canticchiare una canzone.

«Come si chiama?»

«Occhi di speranza.»

Ho la pelle d'oca. Non l'avevo mai sentita. «E' questa?»

Gabriel annuisce e mi prende per mano. I suoi occhi sono a malapena sulla strada, ma l'auto transita senza allontanarsi minimamente dal centro della corsia. Con una mano impugna il volante, mentre l'altra stringe la mia. Talvolta, il suo sguardo è rapito dal sole all'orizzonte, talvolta da me, dai miei occhi e dai miei capelli mossi dal vento. Resto imbambolata ad ammirarlo, la mia mente all'improvviso è un deserto disabitato, ho perfino dimenticato come si respira.

«Mi piace Ramazzotti?»

«Lo adori.»

«E tu?»

«Io adoro te.»

Giungiamo a destinazione, la città è lontana e il buio ci avvolge come un mantello.

Gabriel mi cinge la vita e mi indica di guardare il cielo. «Ti presento Cuore» mi sussurra dolcemente, mentre le sue mani s'intrecciano alle mie. «E, accanto, c'è Anima.»

«E' incredibile. Sembra un cuore umano.»

«Guardavamo sempre le stelle insieme.»

«Tu sai perché non ricordo niente di noi due?»

«No, l'unica cosa che so è che non sei più tu». Una miscela di tormento e disperazione vela i suoi occhi. «Voglio che torni ad essere felice.»

«Lo ero con te?»

Gabriel annuisce, prima di tatuarmi la fronte con un bacio. Un caldo tepore mi scalda la guancia, ogni suo contatto è miele per il mio cuore amaro.

***

La mia vista è avvolta dall'oscurità, come se provassi a guardare attraverso le palpebre. Cammino, tastando con le mani la superficie di una parete. E' ruvida e sotto i polpastrelli sento profonde striature dai margini netti, come ferite cutanee. Cerco disperatamente uno spiraglio di luce, non sono abituata ad una oscurità così fitta e m'inquieta. Dopo alcuni passi, riesco a scorgere un bagliore e lo raggiungo a tentoni.

In quell'istante, rievoco un passatempo che facevo da bambina: mosca cieca. Agito le braccia nel vuoto nel disperato sforzo di afferrare qualcosa, come nel gioco. Dopo diversi tentativi, riesco ad impugnare una maniglia e oltrepasso una porta. Qualcosa di viscoso, simile a dei filamenti tanto microscopici da sembrare invisibili, si appiccica al mio viso. E solo dopo essermene liberata realizzo che si tratta di una ragnatela, il suo abile creatore sperava di intrappolarmi scambiandomi per una delle sue prede. Mi ritrovo su una piattaforma di ferro da cui prende vita una scalinata a spirale, che si perde nel vortice di oscurità sottostante.

Nell'aria ristagna un odore ripugnante, mi fa pensare alla morte. Sento le narici dilatarsi e riconoscerlo: è sangue. Quel ragazzo è già lì, sembra quasi che mi stia aspettando. Un ringhio basso gli gorgoglia in gola, la sua ferocia traspare dagli occhi che rosseggiano nel buio.

La paura inizia a serpeggiarmi dentro, un pizzicore sotto la pelle che avanza irrefrenabile. Un grido mi risale dal profondo, ma si zittisce di fronte a quell'orrore. Il cuore mi pulsa forte, tanto da demolirmi il torace e imboccare la via di fuga. Mi metto a correre a perdifiato, sento i polmoni andare in fiamme, la gola serrarsi in una morsa sempre più stretta e l'odore persistente di ruggine pervadermi le narici. Quell'essere m'insegue. Lo sento avvicinarsi, mi alita il suo fiato sul collo, pronto a ghermirmi non appena rallenti il passo. Un attimo, un solo istante di cedimento e sono persa. Nella mia corsa disperata, non mi sono neanche accorta che le scale sono sparite, sostituite da un sentiero erboso che si snoda tra gli scogli. Inciampo in una roccia sporgente, perdo l'equilibrio e cado. Mi graffio i palmi delle mani, che iniziano a sanguinare.

E' la fine.

Quel ragazzo mi raggiunge, ma non mi afferra. La superficie sotto di me scompare ed io precipito nel vuoto. Agito inutilmente le gambe, mentre con le mani impugno l'aria nel disperato tentativo di aggrapparmi a qualcosa. Ogni mio sforzo è vano ed io precipito sempre di più.

Inghiottita dalle tenebre.

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