Capitolo 27

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Il lexotan aveva fatto il suo dovere; era riuscito a farla dormire tutto il giorno, da cui cercava di nascondersi. Non erano più gli incubi ad attanagliarla, ma la lentezza dei secondi di ogni singolo giorno. L'unica via di fuga le era offerta dal sonno, solo mentre dormiva poteva mettere in stand by la sofferenza, in una realtà talmente lontana da non sentirla più sua. Durante quelle ore, le sembrava che la mente venisse resettata, riportata allo stato d'origine, senza l'ombra della più piccola briciola di dolore. Una sorta di vita parallela in cui lui non era mai andato via, lasciandola sola ad affrontare la disperazione. Ad affrontare un mondo ostile, arido, gelido. Un mondo vuoto. Senza di lui.

Dopo un'intera giornata impastata dallo strazio di una lenta agonia, il letto le offriva tutto ciò di cui lei aveva bisogno: calore, tranquillità, protezione. Un bunker che la difendeva da ogni attacco indesiderato della sofferenza; che le permetteva di isolarsi da tutto ciò che era al di fuori di quelle mura. Immune da ogni costrizione. Pensare. Parlare. Ascoltare. Muoversi. Vestirsi. Truccarsi. Aveva smesso di studiare; di recarsi al lavoro; di occuparsi di sé.

Aveva smesso di vivere.

Al risveglio, però, quel magico oblio svaniva, portandosi dietro ogni parvenza di atarassia. Ancora una manciata di secondi a disposizione, in cui i ricordi le stavano lontani e lei non rammentava chi fosse né dove si trovasse e, soprattutto, cosa le fosse accaduto. Poi d'un tratto, ecco che tutto le tornava alla mente, limpido e terso. Una fitta atroce le trapassava il petto nell'istante in cui il dolore tornava a materializzarsi, ricordandole che non era mai andato via e che le avrebbe tenuto compagnia per un'altra lunghissima giornata.

Quel tardo pomeriggio, Serena fu svegliata dall'impellente bisogno di andare in bagno. Aveva dormito per due giorni di seguito e, quando provò a sollevare la testa dal cuscino, non fu facile, pesava quanto un macigno. Un dolore violento le attanagliava le tempie. La sua camera era immersa nel buio. Lanciò un'occhiata in direzione della finestra e si accorse che era già tramontato il sole. Scese dal letto con i muscoli un po' indolenziti e, barcollante, raggiunse la porta. Stava per aprirla, quando sentì delle voci nel corridoio e si fermò.

«Sono due giorni di fila che salti gli allenamenti!», urlò Emis.

«Abbassa la voce», mormorò Ester. «Sere sta dormendo.»

«Non è andata al lavoro, oggi?»

«È barricata in camera sua da due giorni. Ho dovuto pensarci io o l'avrebbe perso.»

«Sta così male?»

«Sì». Ester fece un sospiro. «Le ho provate tutte, ma non vuole darmi ascolto. Dice che l'unica cosa di cui ha veramente bisogno è essere lasciata sola. Non fa altro che dormire.»

«Ma ci deve pur essere qualcosa che possiamo fare per lei, no?»

«Mia madre dice che ha bisogno di tempo.»

«Tempo per cosa? Per meditare il suicidio? Starsene tutto il giorno chiusa in camera, non fa altro che deprimerla.»

«Credi che non lo sappia? Ma non vuole saperne. Ultimamente, è sempre di cattivo umore, forse, anche per via di questo.»

«Cos'è?»

«Un ansiolitico.»

Al suono di quella parola, Serena spalancò la porta della sua camera. «Questo è mio» dichiarò con la voce impastata, dopo aver strappato dalla mano di Ester una boccettina.

«Da quanto ne fai uso?» tuonò Emis, preoccupato.

«Non ti riguarda.»

«Altroché se mi riguarda, Sere. Non puoi andare avanti così, non posso permettertelo.»

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