Erano secondi? Minuti? Magari ore?
Non sapevo da quanto tempo fossi lì, sdraiata sul pavimento della mia stanza, a fissare il soffitto bianco.
So solo che il mio corpo non rispondeva più ai comandi.
Ero diventata un tutt'uno con il laminato scuro, ogni singola particella che componeva quello che, purtroppo, era il mio corpo, desiderava rimanere così per sempre: senza pensieri.
Non il "senza pensieri" di Timon e Pumbaa, niente Hakuna Matata per me. Semplicemente, il nulla totale.
Lasciare che lo sguardo si bloccasse in un punto qualsiasi era diventato il mio passatempo più frequente.
Era quasi piacevole estraniarsi momentaneamente dalla realtà, per rimanere in uno stato di trance, senza stupidi pensieri per la testa, senza preoccupazioni o rimorsi.
Mi sentivo meglio quando non pensavo, quando mi isolavo da tutto e tutti.
Finalmente, in quei momenti, potevo essere in pace, almeno un po'.
Proprio per questo motivo, essi diventarono sempre più frequenti.
Magari, mentre stavo intrattenendo una conversazione, perdevo il filo, ritrovandomi poi a scusarmi per la disattenzione. Mentre stavo facendo qualcosa, mi bloccavo e rimanevo lì, impalata, totalmente inerme.
Quando ero a cena con mio padre, fissavo il piatto, giocherellando con ciò che esso conteneva, mentre lui cercava in tutti i modi di aprire un discorso, senza alcun risultato.
Aveva intuito che qualcosa non andava ma non faceva domande e, dopo un paio di tentativi, lasciava perdere con un sospiro, per poi tornare a quello che stava facendo.
Adoravo mio padre, c'era sempre stato e gli dicevo sempre tutto, solo che, non me la sentivo ancora di raccontare tutto a qualcuno.
Dovevo elaborare da sola.
Mi alzai, sentendo ogni cellula gridare contrariata, e osservai la stanza per un'ultima volta.
Le pareti verde pastello, che avevano la stessa tinta di quando avevo tre anni, con il disegno a pastello di un piccolo sole viola in un angolino dietro l'armadio. La grande finestra che si affacciava sul vialetto di ghiaia, dove avevo imparato ad andare in bicicletta da sola, con qualche taglio come ricordo. La trave rotta sotto la quale nascondevo il mio diario, cui avevo potuto confidare senza paura tutti i miei più tetri e oscuri segreti da dodicenne innamorata.
Non ci sarebbe stata nessuna trave rotta d'ora in poi, nessun sole viola e nessuna grande finestra che dà sul vialetto. Dopo sedici anni, traslocavo.
Nelle ultime settimane, avevo messo vestiti e libri negli innumerevoli scatoloni e assistito allo smantellamento dell'intera casa.
Ogni mio ricordo più caro era legato a quel posto.
Le favole della buonanotte che mamma mi raccontava, sdraiata al mio fianco, prima che mi addormentassi erano fra questi.
Avevo messo i ricordi di mia madre in un'immaginaria cassaforte e qui rimanevano immacolati e puri.
Proprio come lei.
«Annabeth,» bussarono alla porta e sorrisi quasi nel vedere mio padre sbirciare da uno spiraglio. Entrò con un sorriso soddisfatto, ma non tentò neppure di nascondere la malinconia che provava.
«Partiamo tra cinque minuti, forse è meglio scendere ora.» Disse con la voce stanca di chi ha passato la settimana a imballare e impacchettare tutti i suoi averi in valigie e scatoloni.
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Hey || Percabeth [IN REVISIONE]
أدب الهواة[IN REVISIONE] [AU : NON SONO SEMIDEI] 'Hey' da ora in poi sarà la mia parola preferita. Percy è il solito, mangia, ride, nuota, ma è leggermente un piantagrane... Il suo piantagrane. P.S. prima o poi riscriverò anche la descrizione ma un satiro mi...