Capitolo 1 - Spettacolo [R]

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Mi sporgo un po' dal finestrino.
Di fronte a quello spettacolo, per una frazione di secondo, mi sembra di essere già nel bel mezzo del concerto. Una massa di persone si stende a perdita d'occhio: tutti trattengono l'ansia all'unisono, con respiri veloci e corti, quasi a tentar di fare di tutto, anche solo respirare, pur di ingannare il tempo. La distesa d'erba alla mia destra, circondata dagli alberi di Central Park, è un vero e proprio tappeto di persone.
In fondo al prato, c'è il punto focale: il palco. Attira sguardi, emozioni e speranze: è come una calamita e più lo guardi, più il sorriso si distende e il cuore accelera.
«Wow!» esclama il mio guidatore preferito.
«Puoi dirlo forte, Sam» rispondo.

Parcheggiamo al posto prenotato.
Scendo dalla macchina, stirando i muscoli e accogliendo il sole primaverile di questa mattina a braccia aperte. Una strada in asfalto porta esattamente fino al palco, costeggiata da prati che erano vuoti due giorni prima, ma che ora brulicano di vita. Apro gli occhi giusto in tempo: per poco non vengo investita da un motorino che passa sul marciapiede. Emetto un piccolo urlo per la sorpresa e mi sposto, guardandolo male mentre passa davanti a me.

Sai di essere a Manhattan quando scendi dalla macchina dopo ore di viaggio per renderti conto di trovarti solo qualche chilometro più lontano da casa tua. Il venerdì il traffico è qualcosa di assurdo. Avremmo fatto prima a piedi, io glielo avevo detto, ma Sam aveva insistito: voleva guidare la sua nuova auto con me. Così, eccoci qui, i carretti degli hot dog a darci il benvenuto e un forte odore di formaggio, misto a tubi di scarico.

Sam si scosta una ciocca di capelli castani dal volto.
Ha deciso di lasciarli crescere. Quando me lo aveva detto io non avevo approvato e al tempo avevamo discusso; una classica litigata delle nostre: parolacce, porte sbattute in faccia, cinque ore di silenzio e poi un grosso abbraccio rappacificatore. Ma da allora, lui per me è...
«Ho voglia di una sigaretta, Indiano Palestrato. Se non sbaglio, me ne devi due» ricordo, alzando un sopracciglio e incrociando le braccia.

«Potrei ucciderti qui e subito se mi chiami ancora così, Hubby» si arrabbia lui, usando a sua volta il mio soprannome, nato quando tempo fa mia madre si era messa a raccontare miei aneddoti da piccola. Mentre io sprofondavo nel divano rosato e mi nascondevo dietro la forchetta del purry che stavo mangiando, lei raccontava a Sam di quando da piccola le chiesi se il mio nome, Håbe, che si pronuncia "Hub", volesse dire "mozzo" e di conseguenza io fossi una "hubby", che nel mio cervello da bambina significava "piccola ragazza della nave".
In realtà ovviamente non è così: il mio nome non va tradotto dall'inglese... ma il soprannome imbarazzante rimane.

Scuoto la testa e gli do una gomitata. Stupido ammasso di muscoli.
In tutta risposta, lui mi mette un braccio intorno al collo, ridendo ed esibendo così i perfetti denti bianchi, intrappolati nella mandibola squadrata.
Ci dirigiamo in quel modo verso il prato. Migliaia di tende di persone che hanno passato la notte lì, miste a qualche asciugamano, rendono arduo il cammino. Sotto il palco c'è già gente ammassata e trepidante, sento quasi la loro adrenalina riempire i miei polmoni, riesco a respirarla.

«Te l'avevo detto io! Dovevamo arrivare prima» miagola il lamentoso Indiano.
«Muoviti, c'è ancora spazio al centro, ma se stiamo qui ad aspettare non troveremo neanche più quello. Andiamo!»
«No, ho ragione io! E ora sono offeso.»
Accenno una corsa, trascinandolo con me per la mano, ma è come trascinare un continente intero: non si muove di un centimetro.
Lo guardo in cagnesco. «Senti brò, se non collabori, ti prendo a pugni qui e subito.»
«Fatti avanti, stecchino!» Butta a terra la borsa con foga, piega le ginocchia, le mani a pugno davanti al viso, la mascella serrata.
«Lo sai che ti ridurrei in poltiglia» sbuffo, scostandomi una fastidiosa ciocca dal viso.
«Dai!» ringhia. Muta l'espressione in una faccia cattiva, aggrottando la fronte, come se stesse davvero per partecipare a una rissa.
Faccio finta di dargli un pugno ma lui mi afferra per il braccio e mi tira su da terra, caricandosi in mezzo secondo il mio corpo sulla spalla e lasciandomi completamente senza fiato. Spalanco la bocca, prima di protestare: «Sam! Fammi scendere!»

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