Capitolo 23 - Dean

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Ci guardiamo negli occhi per quelli che sembrano anni, ma magari sono passati solo pochi secondi. Posso scommettere di aver sentito il rumore del mio stesso cuore accelerare a dismisura.

Prendo una decisione.
D'altronde, per comprendere un pazzo bisogna diventare un po' pazzi, o sbaglio?

Respiro, e mi avvicino a lui, poggiando le mani sulla superficie ruvida del muro. Mi sporgo un poco: vertigini. Brividi mi corrono famelici su per la schiena. Io provo quello che lui dice di non provare, sento la mia testa urlarmi che è pericoloso, percepisco i nervi tendersi, ma stringo la mascella.

Mi faccio forza con le mani, e in un attimo sono in piedi.

Non riuscirò mai a descrivere la sensazione.

Per la prima volta nella mia vita mi sento potente. Mi sento viva. Non mi era mai accaduto: tutto quello che avevo di prezioso avevo sempre dovuto tenerlo nascosto. I miei sogni, la mia ex relazione. Era tutto in un cassetto, e salendo sul quel muretto per la prima volta lo sento spiccare il volo.

Comico, ma stando lì, a meno di un passo dalla morte, per la prima volta vivo davvero.

Cerco di mantenermi in equilibrio allargando le braccia. Il mio stomaco si attorciglia in diversi giri, e quando do un'occhiata giù lo sento fare una capriola all'indietro: altri brividi, e il cervello mi manda impulsi d'allarme. Sotto di me, Madison Ave sembra una piccola pista giocattolo, e i taxi le macchinine che trovi negli Happy Meal. Le persone mi sembrano solo formiche alle prese con le loro inutili faccende.

Ho paura, una paura fottuta. Ma dentro di me so che man non mi darà mai la mano. Non mi aiuterà. «Come va?», mi chiede.

«Oh, Gesù... ho paura» rispondo, fissandomi i piedi e cercando con tutta me stessa di non cadere.

«Guardami.»
Lo guardo. Lui si avvicina a me di un paio di passi, lentamente, e invece di pensare al fatto che da un momento all'altro potremmo cadere entrambi o all'impatto con l'asfalto, mi rendo ancora una volta conto di quanto sia dannatamente alto rispetto a me. Senza i tacchi gli arrivo poco sotto la spalla.

Intanto lui si avvicina ancora studiandomi in viso.
Il silenzio tra di noi diventa la lingua degli occhi: ci parliamo senza aprire bocca.

Ma io ho una cosa da chiedergli a voce alta, ho bisogno di sentire la risposta. «Man. Davvero ti butteresti?» Pongo la domanda con la massima cautela. Lui inclina un po' la testa.

«No» risponde, risoluto. «Mi piace solo l'idea di farlo. Ma penso io sia... in qualche modo fin troppo morto per morire.»

«Quindi sto parlando con uno zombie?», lo sfotto.
«Una cosa simile.» Il vento gli spinge una ciocca di capelli nell'occhio destro, che lui si affretta a spostare con un gesto fulmineo.

«Hai visto troppi film horror. Anzi, magari...» Mi scappa un'altra occhiata verso il basso, e rabbrividisco di nuovo. «Che ne dici di andare a vedere un film insieme?»

Lui quasi sorride. Si volta verso New York. Fa un ampio gesto con la mano, poi mi guarda. «Questo non ti basta?»
«Preferisco... vederla da dietro un muro. Con i piedi saldi sul parquet.»
«Siamo diversi», fa lui.

Ci penso su. «Forse non quanto pensi.»
Mugugna. È ancora voltato, e non riesco a vedere il suo viso.

Beh, ok. Quindi... ho tratto una conclusione affrettata. Man non aveva intenzione di suicidarsi. Riflettendoci ora, non credo sarebbe mai in grado di farlo. E penso di sapere anche il perché.
Magari non ne è cosciente neanche lui, ma io so quale è stata la mia àncora di salvezza tempo prima, l'ultima in fondo al vaso di Pandora: la speranza.
Un'idea malsana mi spunta in testa: ma farei di tutto per portarlo via da lì. E per portarmi via da lì.
Anche raccontarglielo.

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