Capitolo 28 - Mare

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***

Alla fine riusciamo a organizzare un'altra gita al mare il dieci agosto. Io intanto ho ripreso a lavorare come dog-sitter per questo mese, come feci anche l'anno scorso.

Io e man smettiamo di vederci spesso come prima: i nostri orari non coincidono per nulla. Lui lavora quasi tutti i giorni, mentre io solo nei pochi che ha liberi, praticamente. Il dieci agosto diventa un traguardo da raggiungere. Così lavoro finché non arriva e tutti insieme con diverse macchine ci incontriamo al mare. Stavolta non andiamo lontano come a giugno: ci limitiamo alla costa più vicina.

La giornata va sostanzialmente come andò due mesi fa, ma con una fondamentale differenza: man. Ricordo come fosse schivo e assente durante la nostra prima gita, come era così lontano. Non dico che sia felice, adesso, ma partecipa molto più volentieri alle cose che facciamo.

Arrivano troppo presto le quattro di pomeriggio.

Avverto gli altri che vado a fare una passeggiata. Afferro la macchinetta e la appendo al collo. M'incammino verso il bagnasciuga.
Il mare è calmo, c'è tanta gente: dei bambini di fronte a me giocano coi secchielli. Fotografo un gabbiano che, veloce, si poggia sul pelo dell'acqua e poi se ne vola via con un pesciolino nel becco.
Poi inquadro il sole e i suoi riflessi sull'acqua. Sto per scattare, quando...

«Certo che non la molli mai quella.»

Ho un sussulto, e mi volto di scatto.
Brutto, bruttissimo errore.

Man porta degli occhiali da sole neri, una maglietta a maniche corte blu scura coi bordi bagnati e il costume. Non lo avevo mai visto così vicino all'acqua.

Sorrido, evitando di non arrossire di fronte a quell'immagine. «Oh, è un po' come una sorellina. È veramente una grande passione.»

Lui sorride. Piano piano, entra in acqua. Non mi ero neanche accorta di essere entrata in mare, troppo presa dallo scatto: l'acqua mi arriva poco sotto le ginocchia.

«Anche io avevo una passione, prima», dice. Intanto sfiora la superficie del mare con un dito.
«Quale?» Per non fare troppo la curiosa e spezzare la tensione, decido di scattargli una foto all'improvviso.

Alza la mano a coprirsi troppo tardi, come al solito. Poi mi guarda, e si toglie gli occhiali, lasciandoli sulla testa. «Il nuoto.»

In effetti un fisico del genere da qualche parte doveva venire. «Per quanto tempo l'hai fatto?»
Ci riflette un secondo. «Mi sa una decina d'anni. Non ricordo.»
«Caspita, è tanto. Hai cominciato da piccolo?»

Lui mi supera e si china. Raccoglie un sasso dal fondo, poi con un bel tiro lo lancia. Fa ben cinque saltelli sull'acqua prima di sparire alla vista.

La mia domanda non ha risposta. Invece di indagare di più, decido di scattare un'altra foto: lui e il suo profilo bruciato dal sole che ha davanti. Poseidone in questo momento gli farebbe un baffo.

C'è silenzio. Non so davvero che fare.
Perché sento di dover essere io a parlare? Devo ancora capire... quando non risponde a una delle mie domande vedo chiaramente il limite oltre il quale non posso andare, ma un secondo dopo sparisce, e i contorni sono così sfocati.

Decido di tacere.
E tacciamo.

Quando sto per voltarmi e andarmene, lui risponde:
«Avevo dieci anni penso. Mi ci iscrisse una signora che portava sempre un orribile vestito marroncino a fiori. Però comunque le fui grato.»

La voce con cui lo dice è cauta, come se invece di parole stesse maneggiando una bomba inesplosa. Tacitamente lo ringrazio, e decido che può bastare così. Mi metto al suo fianco e lo guardo, ma lui è perso altrove.

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