Capitolo 22 - "Stand by me"

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|Piccola premessa autrice: quando arriverà il momento, durante la lettura — e lo capirete — mettete in sottofondo la canzone qui sopra. Perché? Beh, capirete anche questo ;)|



***

Lego i capelli in una treccia sulla spalla destra, come facevo da bambina: fa troppo caldo per tenerli sciolti. La piccola borsa a tracolla mi pende dal fianco: dentro ci sono praticamente tutti i miei beni più preziosi, tranne la macchina fotografica, che decido di lasciare a casa a malincuore.
Faccio un respiro profondo. Metto le scarpe col tacco? Ok, le metto. Ma prendo un taxi, non se ne parla di camminare con quelle.

Prima di uscire, mi assicuro di aver chiuso la casa. Saluto Sam che smonta dall'auto proprio in quel momento e senza dargli spiegazioni scappo via. Non ho intenzione di parlare con nessuno... eccetto man.

Non ho dormito la scorsa notte. Mi sono venuti in mente così tanti discorsi, così tante cose da potergli urlare in faccia. Eppure, non credo di essere in grado di dirgli nulla di tutto ciò. Sarebbe come confessargli che lo amo.
Oh, beh. Mi rendo conto che praticamente l'ho già fatto, in gita.

Chiamo un taxi, e mi faccio lasciare all'incrocio tra la settantottesima est e Madison Avenue.

Faccio un bel respiro. Mi ritrovo davanti quel maledetto portoncino. L'immagine di Loren mi è ancora chiarissima e nitida sotto le palpebre; che grandissima stronza. Non riesco ancora a capire perché l'abbia fatto, ma se c'è una cosa che so è che è lei l'unica vera colpevole, l'ha fatto intenzionalmente.
Man invece no. La sua è soltanto abitudine. È routine. Quel ragazzo ha perennemente inserito il pilota automatico.
Sono ancora preoccupata all'idea di come trovare il pulsante per disattivarlo, qualcosa che potrebbe aiutarlo a salire su dall'abisso... "Portalo su anche per me", ha detto Taito, ma come posso fare?

Salgo le scale stando attenta a non rotolare giù. Suono il campanello della sua porta.

E aspetto.

Ora: so che doveva essere in casa. Sono sicura del fatto che questo sia l'unico giorno della settimana in cui ha il pomeriggio e la sera liberi.
Sono le otto e mezza. Dove può essersi cacciato?

Così mi dico che sarà uscito per fare la spesa.
E aspetto ancora.

Dieci minuti.
Trenta.

Lo chiamo. E il suo cellulare squilla... da dentro il suo appartamento. Aspetto, ma nessuno risponde.
Perché non c'è nessuno in casa.
Suono un'altra volta, giusto per convincermi, ma niente.

Aspetto altri venti minuti.
Poi me ne vado. 

Mentre ciondolo per la strada, guardo davanti a me: il bar dove lavora.

"Credo esca solo per lavorare".

Mi infilo dentro il bar e l'aria condizionata mi abbraccia.È un sollievo, il caldo afoso che c'è fuori mi uccide. L'orologio grigio del locale mi dice che si sono fatte già le 21:30.

«Ciao, Håbe!», mi saluta Doreen. Porta una camicetta blu con le maniche bombate e sopra il grembiule del bar. Ha i capelli biondi raccolti in una crocchia disordinata.«Che ci fai qui? Sei venuta a trovarmi?» Continua a sistemare degli stuzzichini nelle buste. Non ci sono molti clienti, solo tre dei sette tavoli sono occupati.
«Ehi, Dor. Ciao.» Mi appoggio sconsolata al bancone. «In realtà non ero venuta per te, mi spiace. Sai per caso dove posso trovare man?»

Lei non sembra sorpresa. Sorride, e abbassa lo sguardo. Sta un po' in silenzio, prima di rispondere: «Èvenuto a lavoro prima di pranzo e poi ha smontato. Io mi devo fare tutto il giorno qui dentro oggi. Il nostro terzo aiutante sta male, così lo copro. Man ha detto che non gli andava...» Mi guarda fisso, smettendo improvvisamente di parlare. 

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