19. Non era destino

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J u s t i n

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"L'esame come è andato?" domandai aprendo l'anta del frigo, la richiusi notando che era praticamente vuoto. Avrei bevuto volentieri qualcosa di rinfrescante che non comprendesse latte e acqua. Sbuffai, appoggiandomi all'isola. 

Mia figlia Adele continuava a balbettare dall'altro capo del cellulare, non era per niente convinta delle sue parole ma domandarle il perché mi spaventava. L'avrei fatta infuriare e mi avrebbe riattaccato il cellulare in faccia, senza mezzi termini. E non potevo permetterlo. Lei era una delle poche certezze che mi erano rimaste.

"Justin, ci sei?" domandò d'un tratto. Scossi il capo: mi ero per un istante immerso nei miei pensieri. Grattai la nuca.

"Sì, sono qui" annuii, pur sapendo che non mi avrebbe potuta vedere. "E non chiamarmi Justin, sono tuo padre. Non sopporto quando lo fai" la rimproverai appena. Da quando si era trasferita si ostinava ad apostrofarmi con il mio nome. Sarà stata la lontananza, la voglia di crescere. Stava di fatto che io ero suo padre, volevo che continuasse a chiamarmi come mi aveva sempre chiamato. 

"Sì, papà..." lasciò la frase in sospeso. Io bagnai le labbra secche, massaggiai il petto nudo. Avevo indosso un paio di jeans.

"Piccola, che ne dici se un giorno di questi venissi a farti visita?" tentai. Istintivamente strizzai gli occhi: non era la prima volta che glielo domandavo.

"No, Justin. Sono fin troppo...occupata con l'università" si affrettò a dire. E quella, non era la prima volta che mi negava la possibilità di raggiungere. Mi dovetti rassegnare ancora una volta.

"D'accordo. Però mi hai chiamato di nuovo Justin" nel pronunciare tali parole, il suono del campanello riecheggiò in casa. Alzai lo sguardo, tenni il cellulare stretto in una mano, vicino l'orecchio e mi avviai verso la porta d'ingresso. Non mi aspettavo visite. Avevo deciso di prendermi una pausa dal lavoro, la quale molto probabilmente sarebbe stata prolungata per mesi. 

Non ce la facevo, non avevo più le forze per riprendere in mano le redini della mia vecchia vita. Avevo licenziato la mia segretaria personale, l'avevo però affidata ad un mio fidato collega, così da aiutarla. Non meritava di perdere il posto di lavoro per colpa mia, a causa delle mie paure e insicurezze. Anche solo mettere piede nel mio ufficio mi faceva stare male. Il respiro pesante, la testa che girava ogni volta che mi accomodavo sulla mia poltrona. Quel posto, come la vecchia casa, cercava di impormi di ricordare. 

"Scusami, papà" la sua voce non traspariva alcuna emozione, se non imbarazzo.

Sorrisi nel sentirle pronunciare quella parola: Adele mi mancava costantemente. Aprii la porta con un sorriso stampato in volto, il quale scomparve lentamente nel notare due occhi verdi gonfi e rossi. Il viso pallido di Lydia bagnato e il suo naso leggermente rossastro. Probabilmente aveva corso per raggiungere casa mia. Aveva il fiatone, i capelli sciolti e le labbra leggermente screpolate.

"Amore, ti richiamo. C'è un...imprevisto" assottigliai la voce nel pronunciare l'ultima parola. Adele mi salutò, io feci lo stesso e chiusi la chiamata. Tenni il cellulare in una mano, l'altra ancora stretta sulla maniglia. 

Ci fissammo a lungo, sperai con tutto me stesso che proferisse parola perché io, oltre ad ammirare i suoi occhi carichi di lacrime, non riuscivo a muovere muscolo, né ad aprire bocca. Mi aveva spiazzato, un po' come tutte le altre volte. Da quando l'avevo ritrovata la mia vita era un continuo susseguirsi di scoperte e sorprese. A volte piacevoli, altre invece avrei preferito rimanessero nascoste.

"Vuoi accomodarti?" inizia. Vederla lì, inerme, non mi piaceva. Se avesse voluto discutere tanto valeva la pena farlo in casa, senza dare spettacolo. Era evidente che stesse per scoppiare e avrebbe iniziato ad alzare la voce da un momento all'altro per un motivo a me ancora sconosciuto.

The Feeling 2 Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora