23. Due settimane

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L y d i a ❀ 

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Due settimane.

Continuavo a ripetere questa frase. Avevo le mani fra i capelli, i gomiti poggiati sul tavolino e gli occhi fissi sulla tovaglia ritraente dei girasoli.

Due settimane.

Le labbra presero a tremare, gli occhi pizzicavano. Avevo diciannove anni, quasi venti. Il respiro affannoso, la voglia matta di alzarmi, scaraventare a terra la sedia e gridare a squarcia gola contro quel qualcuno che ha deciso di affidarmi una vita tanto difficile.

Due settimane.

"Due settimane a cosa?" sentii dire dietro di me. Mi voltai di scatto, ad accogliermi fu la figura di mia madre con addosso il pigiama.

Mi fissava con le ciglia inarcate, cercando di capire perché stessi parlando da sola. Stavo impazzendo, non c'erano altre spiegazioni. Non potevo perdere lucidità.

"Tra due settimane c'è...una cena con degli amici di Noah e non so cosa indossare" balbettai la prima scusa che mi venne in mente.

"E te la prendi tanto? Sembravi piuttosto...furiosa" concluse la frase con un tono di voce decisamente preoccupato. Io non ero furiosa, io ero tremendamente spaventata.

"Sai come sono fatta" roteai gli occhi al cielo. A volte non lo sapevo neanche io, figuriamoci se riuscivano a capirlo gli altri. 

Mia madre non rispose, si avvicinò al frigo e aprì l'anta in cerca di qualcosa. Seguii attentamente i suoi movimenti; da quando era stata dimessa, due giorni prima, era tornata in sesto. Non dava segni di cedimento, la sua forza era invidiabile. Le avevano imposto assoluto riposo ma, ovviamente, mia madre era fin troppo testarda per dare retta ai medici.

"Ricordami di comprare il latte" disse sbuffando, poi chiuse l'anta del frigo, voltandosi verso di me.

L'aria in quella stanza divenne pesante, opprimente. Lo sguardo di mia madre mi bruciava addosso. Durante gli ultimi due giorni di permanenza a casa, aveva notato che qualcosa non andava e cercava di capirlo attraverso i miei movimenti, le mie espressioni e le parole dette. 

Tormentai le mani, strofinandole una contro l'altra sotto il tavolo. Avevo legato i capelli perché, nonostante l'inverno, avevo caldo. Riuscivo finalmente a capire a cosa fossero dovuti i miei sbalzi d'umore, le mie voglie improvvise e il caldo che mi opprimeva nonostante il freddo pungente di febbraio.

Mia madre si accomodò sulla sedia di fronte alla mia, fronteggiandomi.

"Ti va di parlare?" domandò di punto in bianco. Io ne avevo un estremo bisogno, soprattutto con lei, ma non potevo. Non ancora. Dovevo prima rendermene conto in prima persona. 

"Di cosa?"

"Qualunque cosa tu voglia" mi sorrise. 

Da quando le avevo raccontato per filo e per segno la mia travagliata storia di amore con Justin, non avevamo più intrapreso un discorso più lungo di cinque minuti. Quel giorno in ospedale non disse nulla, rimase semplicemente in silenzio. Mi guardò, mi accarezzò una guancia e mi baciò una tempia. Alla fine ci addormentammo.

"Ti manca?"

"Chi?" mi affrettai a chiedere. Eppure, a quella domanda, pensai ad una sola persona.

"Lo sai di chi sto parlando"

Calò il silenzio. Ero tanto ovvia? Tanto comprensibile? Presi un gran respiro e tirai fuori l'aria cattiva. 

"Sono due settimane che non lo vedo" ammisi. Le parole abbandonarono le mie labbra quasi d'istinto, cercando conforto nella donna che tanto amavo e ammiravo. "Ma me ne sto facendo una ragione. Lui mi ha detto di allontanarmi, lo sto accontentando" mi strinsi nelle spalle.

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