07. Accetto le tue scuse

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J u s t i n

C'era qualcuno che continuava a battere incessantemente sulla porta di casa. Avrei voluto urlare a squarcia gola, pregarlo di smetterla ma non riusci ad aprire gli occhi. Mi dimenai sul divano, strizzai le palpebre percependo un atroce dolore alla testa. Gemetti dolorante, portando istintivamente due dita su una tempia per massaggiarla. In un'altra mano tenevo un bicchiere di cristallo vuoto. Mi alzai lentamente, nel frattempo i colpi sulla porta non cessarono.  

"Sto arrivando!" esclamai, sperando che chiunque fosse mi avesse ascoltato. Mi fu impossibile urlare; la gola mi bruciava, la voce fuoriuscì rauca. 

Strofinai gli occhi impastati dal sonno cercando di tenerli quanto più possibile aperti, bagnai le labbra secche e mi alzai in piedi. Indossavo gli indumenti della sera precedente, tutti stropicciati. Posai il bicchiere sul tavolinetto di legno dinanzi al divano e a passo lento mi avvicinai alla porta di entrata: ero un disastro, ma non potevo fare altrimenti. La aprii, davanti a me si piantò la figura di Noah.

"Ti sembra questa l'ora per alzarsi?" domandò entrando in casa, urtandomi con una spalla. Io sbuffai.

"Buongiorno anche a te" dissi a bassa voce, lui non mi ascoltò. Chiusi la porta e raggiunsi il mio amico nella sala da pranzo, il quale era intento a raccogliere da terra la coperta, sistemandola sul divano.

"Qui è un porcile" ammise. Io roteai gli occhi al cielo: sempre troppo ordinato. Non che io non lo fossi, semplicemente lui esagerava ogni volta. "E puzza di alcol" ispirò a pieni polmoni. "Quanto hai bevuto?" si voltò nella mia direzione.

Quanto avevo bevuto? Avevo perso il conto. Forse nove, magari dieci bicchieri. Di una cosa ero certo: ci ero andato pesante. Lo stomaco in subbuglio quella mattina/pomeriggio ne era la prova. 

"Non ricordo" dissi vagamente, fingendo di aver dimenticato.

Noah scosse il capo contrariato ed afferrò il bicchiere da sopra il tavolo, portandolo al naso. Arricciò il naso e lo posò al suo posto.

"Devi andarci piano" 

La ramanzina appena sveglio non l'avrei sopportata neanche dal mio migliore amico.

"Ti prego, Noah. Non adesso" sbuffai sonoramente sedendomi a peso morto sul divano, chiudendo gli occhi. Avrei voluto continuare a dormire.

"Alzati, sono le tre del pomeriggio" mi afferrò per una spalla e mi costrinse nuovamente ad alzarmi. 

Percepii le gambe molli e per un attimo la stanza prese a girare in tondo, persi l'equilibrio e lui se ne accorse, per tanto mi sorresse. 

"Forse è meglio che tu ti sieda" disse. L'io interiore gioì, finalmente mi diede retta, adagiandomi sul divano. 

Si allontanò, andando ad aprire le tende che erano rimaste chiuse sino a quel momento. Una luce accecante battette sul mio volto facendomi gemere fragorosamente, chiusi gli occhi e portai una mano davanti ad essi. 

"Ciò non significa che devi dormire" commentò spalancando le ante della finestra. 

L'assordante rumore delle auto, le risate dei bambini, il chiacchiericcio dei passanti mi penetrò sino al cervello. Il mal di testa aumentò. 

"Chiudi quella finestra!" alzai la voce ma Noah non mi diede retta. 

"Scordatelo"

La sua insistenza mi mandò su tutte le furie, lo fulminai con lo sguardo. Quella era casa mia, ergo le regole spettava a me emanarle.

The Feeling 2 Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora