57 . Fantasmi

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La suola delle scarpe si infossava nell'erba ghiacciata. L'aria gelata era immobile e odorava di metallo, terra umida e pioggia. Il cortile era vuoto e silenzioso. La catena dei cancelli si era sfaldata come plastica sotto il taglio dello scudo di Vibranio.

Il Capitano, ora, camminava qualche metro più avanti. Si guardava attorno, ispezionando ogni forma degli edifici per annotare ogni cambiamento, con gli occhi di un ragazzino che torna a casa dopo tanto tempo. Astrid non aveva osato chiedere come si sentisse a ritornare fisicamente in un luogo che aveva lasciato ad arrugginire per una cinquantina d'anni e lui non aveva accennato ad una condivisione. Lo spiò con la coda dell'occhio inchiodarsi davanti al fantasma impolverato di un'epoca spinta dal sentimento nazionale, dal profondo senso del dovere, dall'adrenalina provocata dall'intima speranza di un riscatto personale. Allora il suo animo andava in una direzione completamente diversa da quella di adesso. Allora lottava per un ideale che vedeva vivere e pulsare negli occhi dei suoi compagni. Adesso si guardava attorno e non vedeva altro che macerie e luoghi dimenticati, vessilli abbandonati. Per un momento rimasero entrambi fermi ad osservare un vuoto combaciante con la bolla di nulla che premeva sotto le costole per farsi più grande e inglobale sempre più materia viva. Quel posto era la metafora della sua vita, era la metafora di sé stesso.

Scavò nella tasca ed estrasse il dispositivo di tecnologia militare che gli aveva affidato Natasha.
Era un punto morto. Da qualsiasi angolazione lo indirizzasse, tutti i parametri rimanevano fermi sullo zero. Pensò che fosse rotto, eppure la presenza di Astrid veniva identificata sul display con un'ombra calda in contrasto col blu dello sfondo freddo.
Decise di lasciare i limiti delle tecnologie moderne dove stavano. Decise di ricorrere al fiuto, che non lo aveva mai deluso. Si guardò attorno e notò che qualcosa non quadrava. C'era un capanno schiacciato al centro del campo che non ricordava. Si incamminò a passo svelto per assicurarsi che fosse stato costruito più recentemente ed effettivamente le mura sembravano meno erose, le tubature leggermente meno imbrunite di tutte le altre nel campo. Vide l'ombra di Astrid seguirlo muta, in attesa di novità.

-Il regolamento dell'esercito proibisce lo stoccaggio di munizioni entro 150 metri dal campo. - esordì parlando come se avesse letto un pannello informativo. Dalla faccia poco convinta della ragazza, comprese che stesse parlando con un linguaggio con cui non era in confidenza. - Questo edificio è nel posto sbagliato.

Prese la mira con lo scudo per scassinare la porta, ma Astrid lo fermò prima che potesse colpire.

-Faccio io.

Steve studiò la mano che si era interposta tra lui e il metallo. Assentì con un cenno della testa. Capì che una delle cose a cui Astrid stesse rimuginando era la necessità di mettersi alla prova, il bisogno di sapere se fosse tutto a posto dentro di lei. Non poteva negarglielo. Si fece da parte.

Astrid strinse l'asta della serratura più forte che poteva. Sul suo volto si incise una smorfia di sforzo, ma non accadde nulla.

-Va bene così.

La voce del Capitano le fece male come un pugno nel petto, il pugno del fallimento. Allentò la presa e notò che sotto il suo palmo, il metallo si era deformato solo un poco, seguendo le guglie che aveva provocato la pressione delle sue dita. Ci riprovò e ricominciò a stritolare il metallo come per strozzare la gola di qualcuno. Strinse più forte e le sue mani invece di riscaldarsi cominciarono a saldare la chiusura con uno strato di ghiaccio luccicante. Imprecò e diete un calcio al portone.

-Spostati.

Il Capitano la spinse poco di lato e lei non ebbe il tempo di reagire che lo scudo andò a spezzare nettamente l'asta in due pezzi, i quali rimasero appesi ciondolando dalle estremità. Steve le lanciò una breve occhiata, mentre lei si teneva le mani nelle mani, arrabbiata con sé stessa, confusa e frustrata. Avevano perso tempo inutilmente.

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