DUE

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UNA STRANA, SELVAGGIA SENSAZIONE

Irrompo nell'atrio illuminato dell'accademia dieci minuti piùtardi del dovuto

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Irrompo nell'atrio illuminato dell'accademia dieci minuti più
tardi del dovuto. Tutto é completamente vuoto. Tutto é enorme. Mentre mi guardo intorno mi sento così minuscola e insignificante.
Stringo la tracolla della mia borsa mentre, con gli occhi, vago per l'atrio enorme senza trovare pace.
<< Che dici, proseguiamo? >>, chiede il pixie spazientito.

Roteo gli occhi muovendo il primo passo in quel posto immenso. É tutto così vecchio, questo posto sembra uscito da uno dei romanzi di Jane Austen. Dall'esterno sembra più appropriato per Stephen King, mentre dentro...wow.
Non sembra un posto in cui adolescenti schizzati vivono e studiano. Osservo la maestosa scalinata che occupa il centro della parete di fronte. Una maestosa costruzione in marmo che porta al secondo piano. Un soffitto, alto almeno sei metri, ospita un enorme lucernario. La luce si infrange sul pavimento lucido, facendo riflettere la mia figura.

Ruoto su me stessa, osservando gli affreschi che decorano il soffitto. Alcuni putti osservano, con un sorriso stampato sulle labbra, il pavimento color avorio. Osservo quei visi grassocci provando una sensazione di pace.
" Chissà quante cose avranno visto da lassù."

Studio l'enorme atrio che mi si apre davanti. Immagino giovani dame che scendono dalla scalinata in marmo alzando, con eleganza, l'orlo dei loro vaporosi abiti preziosi. Inizio a vagare con la fantasia, immaginando i balli sfarzosi che, forse, si erano tenuti qui dentro. Mi volto verso una maestosa porta in legno, posta in fondo all'atrio. Immagino le cameriere uscire di lì con la loro uniforme addosso e un vassio d'argento tra le mani. Le giovani e innocenti ragazze vagano per la sala, schivando vecchi aristocratici ipocriti e pettegole megere. Immagino i padroni di casa, lì davanti a quel meraviglioso arco, che con un sorriso di cortesia stamapto in faccia salutano gli ospiti.
" Chissà cosa penserebbero i vecchi proprietari di noi, folli adolescenti, se ci vedrebbero ora? "

Cerco di staccarmi dalla mia incontrolata immaginazione. La mia attenzione cade su dei vecchi dipinti ad olio, appesi alla parete alle mie spalle. Mi avvicino a loro, incuriorita da quell'ornamento. Li osservo per una quindicina di secondi e sono pronta a giudicarli orrendi, quasi terrificanti. Sembrano fissare ogni tuo movimento, come delle spie.

<< Sono orrendi >>, geme la fatina sulla mia spalla. Mima una smorfia di disgusto. << Guarda queste facce; tutti così vecchi e decadenti >>, continua facendo la linguaccia ad un dipinto scuro, che ritrae un uomo corpulento con una lunga barba rossiccia e dei porcini occhi scuri. Li osservo uno ad uno, soffermandomi sull'ultimo quadro.
É l'unico che ritrae una donna. Una figura sottile e severa su uno sfondo nero. Gli occhi grigi e orgogliosi, come se volessero ridurre tutti in pietra ed esporli in un macabro giardino, sorvegliano quell'ambiente così ampio. Abbasso lo sguardo sulla targa sotto al dipinto, che recita:
Miss Agathe Blan-Sec.

<< L'odierna, nonché ultima, direttrice dell'Istituto >>, riecheggia una voce dietro alle mie spalle.
Mi volto e incontro la figura minuta di una donna sulla cinquantina. La donna in questione é seduta dietro ad una scrivania in legno scuro mentre legge un fascicolo. Non alza nemmeno lo sguardo, sembra che non sia stata lei a parlare. La guardo con sospetto mentre mi avvicino. Stringo il pesante borsone rosso in cui ho buttato tutte le mie cose.

<< Tu dei essere Clarissa Williams, giusto? >>,continua mentre legge. La donna si lecca l'indice e sfoglia una pagina. Annuisco facendo cadere il borsone a terra.
<< Sei in ritardo, tutti i nuovi arrivati a quest'ora sono già nelle loro stanze >>, continua senza alzare gli occhi dalla pagina in cui viene raccontato qualche gossip recente. Alzo lo sguardo verso il lucernario sul soffitto. Il cielo é così azzurro e privo di nuvole. I raggi del sole illuminano i capelli della donna, facendo apparire la sua testa come avvolta da un aureola dorata. Mi schiarisco la voce, ma lei non mi degna ancora di un'occhiata.
<< Accettiamo molto raramente dei ragazzi che provengono dai riformatori. Fa una sola mossa falsa, tesoro, e rivedrai quel buco, sono stata chiara? >>, dice alzando i suoi occhi di ghiaccio su di me.
Annuisco, consapevole che se aprirò bocca usciranno solo insulti.

La donna annuisce, soddisfatta, per poi continuare: << Bene, questo é il tuo orario, principessina, mentre questo il numero della tua stanza>> spiega, porgendomi dei fogli e una chiave.
Mi sistemo la borsa sulla spalla e afferro le carte, iniziando a leggere.

<<Le lezioni inizieranno domani >>, termina.
<< Mi scusi, ma io non prendo medicinali >>, mi affretto a dire.

La mia mano inizia a tremare al solo ricordo dell'ultima volta che ho preso degli psicofarmaci. Ero a scuola, la mia ultima scuola pubblica, ed ero davanti al mio armadietto. Avevo preso il flacone arancione con su scritto il mio nome e mentre leggevo la prescrizione ne ingurgitavo una. Tutto ciò che é successo dopo sono solo ricordi sfocati. La sola unica cosa certa é che mi risvegliai dopo due giorni in ospedale.

<<Vorrà dire che inizierai a prenderli da questo momento >>, ribatte, alzandosi dalla sedia. Il rumore della pelle sintetica riecheggia in tutto l'atrio.
<<Ma non ne ho bisogno >>, insisto, mentre l'elfo mi tira involontariamente una ciocca di capelli. Gli do una spinta e lui cade gridando e con un leggero tonfo sulla mia borsa. Lo sento borbottare in gaellico, parole che sembrano insulti.
<< Ragazzina, a me non interessa ciò di cui tu hai bisogno >>, sibila tra i denti. << E adesso fuori la roba proibita >>. Tira fuori uno scatolone da sotto la scrivania. Lancio uno sguardo al suo interno e ne scorgo una montagnella di vari aggeggi elettronici. Ingoio a vuoto.
<<Roba proibita?>>, chiedo stringendo la tracolla della borsa e alzando gli occhi sulla donna.
<<Già, roba vietata. Cellulari, altre cianfrusaglie elettroniche, armi... >>.
Una lenta goccia di sudore mi scivola sulla pelle alla parola "armi". Penso al doppio fondo del mio borsone, ai miei coltelli a farfalla che sono appesi alla cinta dei pantaloni. Inspiro a fondo e caccio fuori il cellulare. Lo guardo per un secondo e poi alzo lo sguardo sulla donna.

<<Questo mi serve per... chiamare Monica >>, sussurro tenendolo tra due dita.
<<E chi sarebbe Monica?>>, chiede con aria di sufficienza.
<<Mia... >>, respiro a fondo e chiudo gli occhi.

Ho difficoltà a chiamarla "mamma ". Voglio dire non é mia madre, ma una sorta di tutore. Solo che, mi sento sempre in imbarazzo quando devo identificare Marco e Monica nella mia vita. Non so mai come parlarne.

<< Non mi interessa, ma se hai l'urgenza di chiamare qualcuno puoi prenotare la tua telefonata qui >>, annuncia porgendomi un blocco. << Una volta a settimana, non di più >>, continua con un leggero ghigno.
<< Una volta a settimana?! >>, esclamo con la voce stridula.
La donna alza gli occhi al cielo, con fare melodrammatico, per poi far ritornare le sue iridi cristalline su di me.
<< Senti, ragazzina, non ho tempo da sprecare. Butta qui il cellulare e poi sparisci >>, tuona esausta.
Chiudo gli occhi e lascio cadere il cellulare. Cade con un leggero tonfo: il suono delle solitudine.

<< Non é stato così difficile, bambolina >>, mi schernisce. Raccolgo la borsa che avevo lasciato cadere a terra, mentre la donna chiama un ragazzo che stava uscendo da una stanza alle mie spalle. Dei passi leggeri riecheggiano nell'atrio. Resto con lo sguardo per terra, mentre dentro di me s'insinua una terribile sensazione.

Stringo la maniglia della borsa e inspiro. Ingoio a vuoto quando un sapore di zolfo mi scivola in gola. Sposto lo sguardo su un ragazzo che mi guarda stranito. La donna continua a parlare a vanvera, le parole mi scivolano di dosso come acqua calda. Ingoio quel sapore orrendo mentre, dentro la mia testa si fa strada un solo pensiero:
" Maledizione, qui c'è una fata ! "

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