QUINDICI

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BOMBE AL SEILGFLÙR

I redcap hanno la strana e orribile abitudine di spalmarsi sulla fronte il sangue della loro ultima vittima umana

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I redcap hanno la strana e orribile abitudine di spalmarsi sulla fronte il sangue della loro ultima vittima umana.
Una pratica a dir poco disgustosa.
Questo esemplare di redcap, più grosso e più muscoloso, me ne da una pallida dimostrazione sporcando anche me mentre mi annusa.

Alzo gli occhi al cielo e agito le gambe, tirando calci e ginocchiate al suo addome. Lui grugnisce e ringhia ogni volta che lo colpisco. Non voglio sapere cosa farà, quando capirà che ho ucciso io il suo compagno. Cerco di liberare i polsi, ma la fata rafforza la presa. Scommetto che domani avrò dei bellissimi lividi.
Tiro su le ginocchia e cerco, non con pochi sforzi, di creare più spazio tra me e lui. Il risultato, di questo inutile sforzo, é che lui mi ringhia contro. Punta il suo sguardo su di me. Osservo quegli occhi inumani, così feroci e crudeli. Due pozze nere, senza pupilla né sclera. Neri, come se l'iride si fosse allargata troppo fino ad inglobare l'intero bulbo oculare. Alzo il mento, pronta ad affrontarlo.
Ringhia, di nuovo, stavolta più forte e più riecheggiante. I rami degli alberi ondeggiano insieme all'eco di quel ringhio. Lascia andare i miei polsi, ma solo per afferrare il mio torace, come se fossi una bambola, e lanciarmi fuori dalla sua visuale. In questo momento, mi sento come un proiettile che viene sbalzato sparato fuori da una pistola. Il vento mi sibila nelle orecchie, i capelli mi frustano il viso. La pelle scoperta inizia a  bruciare per il freddo e diventa insensibile alla pioggia. Tutto mi passa davanti in una macchia di inchiostro nero. È un volo troppo veloce per distinguere delle figure nitide. Faccio un paio di capriole su me stessa. Distendo un braccio in fuori e, uno dei bracciali che porto al polso si impiglia in un ramo. Resto a penzolare, senza capire cosa sia successo. Guardo in giù e costato che, sono a circa tre metri dal suolo. Il bracciale inizia a rompersi e io inizio a scivolare giù. Il cardo si sfibra e io sto per cadere giù. Afferro il ramo con l'altra mano e, con quel briciolo di forza che mi resta, mi isso su di esso. Sfilo il bracciale, ormai quasi spezzato, dal polso e mi guardo intorno. Osservo l'albero in ombra a cui ero appesa, il redcap mi ringhia contro. Lancio uno sguardo all'albero alle mie spalle. Sarei finita contro il tronco e mi sarei spezzata la spina dorsale se non mi fossi impigliata. Lancio uno sguardo pieno di gratitudine al mio bracciale. Stringo quell'oggetto nel palmo aperto. Ingoio il sapore acido del potere del redcap. Un sapore che sembra corrodermi le viscere. Mi sposto verso il tronco dell'albero, riparandomi nella sua ombra, e cerco di capire come fare a scendere. Lancio uno sguardo alla fata, osservando i suoi movimenti e tenendomi pronta a ogni sua possibile mossa.
L'essere avanza verso il cadavere del compagno e posa una mano sulla schiena. Vedo le sue spalle tremare, come se scosse da dei singhiozzi. Non credevo che le fate piangessero. Le ho sempre viste come creature stoiche e crudeli. Spietati assassini. Un po' come me. Vorrei approfittare della distrazione e scendere a terra, ma la fata emette un verso gutturale e alza lo sguardo su di me. Nel suo sguardo non c'è nessuna pietà, nessun sentimento, solo e soltanto furia omicida. Alza il suo martello da guerra e, con un ringhio animale, lo lancia contro di me. Il martello ruota fendendo l'aria e l'acqua che continua a bagnare il terreno. Mi abbasso appena in tempo. Il martello si scaglia contro l'albero dietro di me, lo abbatte sollevando altri schizzi fangosi misti a schegge. Mi passo una mano sul viso sconvolto, la schiena premuta contro la corteccia ruvida. Se quel martello mi avesse colpito mi avrebbe frantumato il cranio, e non solo.

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