VENTISEI

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UN TALENTO PER L'AUTODISTRUZIONE

Nei miei diciassette anni di vita non ho mai pensato seriamente alla morte

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Nei miei diciassette anni di vita non ho mai pensato seriamente alla morte...
alla mia di morte.
Nonostante i cinque anni passati a dare la caccia alle fate.
Nonostante, le tante volte che sono stata così vicina dall'abbandonare questo orrendo mondo.
Alcune persone dicono che appena prima di morire la vita ti scorra davanti agli occhi, in un lampo ma, a me, non succede questo.
Credo di essere una piccola stanza buia, non riesco a vedere niente davanti a me. Non so se sto camminando, o correndo.
Non so se sono viva oppure morta.
Cerco intorno a me dei lampi di ricordi che mi confermino la mia morte, ma invece ad accogliermi c'è solo buio. Come se non fossi mai esistita. Non sento più quel lieve pulsare nel mio petto, quel ronzio di pensieri nella mia mente. Non sento il torace alzarsi, né tanto meno abbassarsi.
Sento soltanto tanto freddo. Un gelido abbraccio che circonda il mio corpo immobile.
Se questa è la morte, non credo che sia poi così male. Certo, credo che Derrick non me lo perdonerà mai. Quel piccoletto sarà così arrabbiato che combinerà un disastro, ne sono sicura.
Nemmeno io mi perdonerei mai di morire così, in un modo così stupido e vergognoso. Non mi perdonerei mai di morire per mano di una fata. Ho combattuto per sopravvivere per così tanto tempo, non posso morire adesso. Non sono morta quella sera, insieme alla mia famiglia, per un motivo ancora sconosciuto.
Non morirò adesso per una semplice botta alla testa.
Non morirò adesso...

Sento un leggero intorpidimento alle dita quando, molto lentamente, provo a chiudere le mani a pugno. Stringo un può di terra umida nel palmo della mano. Dei sassolini mi graffiano le nocche. Basta, quel semplice movimento di un arto per farmi pulsare la testa. Come se il cervello fosse contetto di riprendere il controllo sul mio corpo. Mi sento come se fossi sotto gli effetti di una sbornia. Digrigno i denti, risvegliando i muscoli facciali. Sento tutto formicolare, come se mi fossi seduta su un formicaio e tutte le sue abitanti mi stiano passeggiando su tutto il corpo. Cerco di mettermi il più dritta possibile, cercando di piegare le ginocchia. Qualcosa mi blocca le mani, però. Cerco di portare le braccia in grembo, ma non riesco a compiere quel movimento.
Emetto un verso di frustrazione.
Provo ad aprire gli occhi, ma anche quel movimento mi appare difficile.
Come se fossero appiccicati o congelati. Provo e riprovo, la pelle delle palpebre che si tende fino all'impossibile, fino a sentirmi il cervello esplodere per il dolore e l'arcata sopraccigliare intorpidirsi. Alla fine, uno alla volta, riesco ad aprirli. Mi guardo intorno, con la vista leggermente appannata riesco a costatare che tutto é rimasto come prima. I resti dei cù sìdh sono ancora sparsi sul terreno, disegnando a terra un disgustoso puzzle con le foglie secche, i rametti e i sassolini. L'odore rancido di decomposizione mi riempie le narici e il gusto amaro che impregna la mia saliva non aiuta di certo. Ho la bocca impastata e mi sento come se avessi passato la serata a vomitare, china sulla tavoletta di un bagno. Più mando giù quel gusto orrendo che ha, oramai, preso possesso della mia bocca e più dei conati di vomito mi scuotono il tubo digerente. Faccio una smorfia di disgusto.
Mi dimentico sempre quanto siano veloci le fate a decomporsi. Tra meno di un minuto tutto questo macello sarà scomparso e tutto questo casino risolto
Almeno spero che sia così. Punto lo sguardo nella penombra. Incrocio la sua figura accasciata contro un albero. La casacca bianca sporca da quella che sembra terra e i pantaloni scuri che continuano a  fasciargli le gambe lunghe e immobili. La testa, eclissata dalle ombre, sembra abbandonata contro la corteccia ruvida dell'albero quasi a sfiorare la spalla in una posa innaturale.
"Alec", mi sussurra una vocina nella mia testa.
Chiudo gli occhi, cercando di calmare il mal di testa atroce. Faccio un respiro profondo, cercando di pensare più lucidamente possibile. Cercando di evocare tutta la serata in modo impersonale.
" Lui non può essere morto. Lui non deve essere morto."
A

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