LIKE A PRAYER (NICOLE)

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Sto per uscire di casa quando sento i primi sintomi dell'ennesimo attacco di panico.

È una sensazione davvero orrenda: inizi a sudare, i brividi ti scuotono tutto il corpo, senti un peso nel petto ed hai la sensazione di soffocare, di non riuscire bene a respirare e più il tempo passa più i sintomi peggiorano anziché scomparire lentamente.

Così seguo il consiglio della mia psicologa; cerco il mio mp3, infilo le cuffie nelle orecchie, lo accendo e seleziono la mia canzone preferita: Like A Prayer, di Madonna.

Appena partono le prime note mi sento subito meglio, tiro un profondo sospiro di sollievo ed aspetto qualche minuto prima d'infilarmi la giacca e prendere la borsa a tracolla; lancio per puro caso un'ultima occhiata all'attaccapanni e noto il cappello che ho trovato la sera prima e che ho messo lì quando sono rientrata: lo prendo in mano, provo ad indossarlo e scopro con sorpresa che è quasi perfetto per la circonferenza della mia testa.

Quando varco il cancello di Fox River ho ancora le cuffie nelle orecchie e sto ascoltando di nuovo la stessa canzone: in realtà mi piace così tanto che potrei ascoltarla anche cento volte senza mai stancarmi o considerarla meno bella; sono quasi a metà del sentiero lastricato quando mi sembra di sentire una voce chiamarmi, una voce poco più forte di un sussurro che cerca di attirare la mia attenzione.

"Ehi... Ehi... Cocca... Nicole...".

Tolgo le cuffie, mi guardo attorno e non è difficile individuare la persona a cui appartiene quella voce: si tratta di un detenuto che se ne sta a poca distanza da me, dall'altra parte della recinzione, con le mani appoggiate agli anelli metallici; indossa una tuta scura, simile a quelle che usano i meccanici, ed io lo riconosco subito.

"Signor Bagwell..." lo saluto avvicinandomi alla recinzione, mantenendo però una distanza di sicurezza per tre motivi: è un estraneo, è un detenuto e soprattutto non so per quale motivo è rinchiuso a Fox River "come si sente oggi? Vanno meglio i lividi?".

Ha ancora una brutta macchia viola appena sopra la bocca ed un'altra che gli circonda l'occhio destro, che fatica a tenere del tutto aperto, ma non sembra essere minimamente preoccupato delle sue condizioni fisiche e lo dimostrano le parole che mi rivolge.

"Lei ha qualcosa che mi appartiene"

"Davvero?" chiedo, corrucciando le sopracciglia davanti ad un'accusa così bizzarra "e cosa le avrei rubato?"

"Quello" risponde lui, ed impiego qualche secondo prima di capire che si sta riferendo al cappello che indosso "deve essermi caduto mentre i secondini mi portavano in infermeria. Ci sono molto affezionato e lo vorrei riavere indietro"

"Come posso essere certa che questa non sia una bugia?"

"Perché non avrebbe senso mentire ad una persona che è stata così gentile con me ed ha mantenuto la sua promessa"

"Perché è qui da solo?"

"Non sono da solo, sono con il mio gruppo di lavoro. Ci stiamo occupando di sistemare la stanza delle guardie. Così quei poveretti avranno un posto dove riposarsi dopo tutto il duro lavoro che fanno"

"Noto del sarcasmo nella sua voce" dico senza riuscire a trattenere un mezzo sorriso e lui mi imita, passandosi una mano nel ciuffo di capelli castani che gli ricade sulla fronte.

"Andiamo, dottoressa, non sono in cerca di guai. Voglio solo riavere il mio cappello, ed ora che lo ha indossato lei avrà di sicuro il suo profumo e questo è un motivo in più per rivolerlo indietro. Così nei momenti di solitudine mi basterà portarmelo al viso, prendere un profondo respiro e mi sentirò subito meglio".

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