Capitolo XXV

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Al di fuori del portone percepisce chiaramente l'atavica bestialità del demone che dilania le innocenti carni dell'uomo che fino a pochi secondi fa era il suo ospite.

Dentro di sé, una microscopica scintilla di flebile empatia si accende fioca ma somiglia alla fiamma di una candela posata sull'umida erba di un campo immerso nella fitta nebbia.

Ora capisce che il prezzo da pagare per i suoi poteri è la perdita della propria umanità mentre avverte un lento ma incessabile distacco con tutto ciò che è umano, con ciò che è amore o compassione.

Si sente come se stesse scendendo la lunga e storta miriade di tristi scalini di un' improbabile Torre di Pisa che lo conduce in un luogo precario e provvisorio ma comunque distante e impenetrabile da cui uscire non sarà più possibile.

Una profonda scheggia della sua anima né è dispiaciuta, forse spaventata ma l'eccitazione che soltanto un potere come il suo può dare lo riempie di fervore, tanto da veder la bilancia in perfetto equilibrio.

Il suo corpo man mano si sta rimaterializzando, dietro lo spesso legno della porta e ora oltre le urla riconosce la cantilena delle sirene della polizia.
Staranno sicuramente giungendo qui dopo tutto il casino che hanno combinato in giro per Roma.

Poi un secco e improvviso colpo inferto addosso al portone lo desta, tanto da far qualche passo indietro per paura gli cada addosso.

Si prepara ad un altro ipotetico scontro rimanendo in attesa qualche secondo ma non accade null'altro poi ode un rumore, forse un passo alle sue spalle dov'è l'altare, che lo fa scattare come una molla.

Svelto si porta dietro la più vicina colonna per nascondersi, teme che qualche prete o una perpetua forse possa scoprirlo e non ha voglia di altri casini. Per quanto sente che sta perdendo la sua umanità vuole distinguersi.
Lui non è come Giuseppe.

Rimane con schiena attaccata alla pietra dell'alta colonna che sostiene l'arco a sesto acuto della volta, aspettando di capire dove si dirigono i passi.

Sono rapidi, leggeri e cadenzati, non sembrano quelli di un vecchio e imbolsito prelato o di una leggera e avvizzita anziana ma piuttosto quelli di un ragazzino.

La luce che attraversa il vetro del rosone sopra di lui si colora e colpisce il suo corpo grigio quasi sporcandolo. Si volta fino a toccare con la guancia la pietra striata della colonna e si accorge che la sua ombra è sfocata, imprecisa, quasi inesistente e tinta qua e la di rosso e verde e blu.
Diventa sempre di più come uno spettro.

Si sporge per guardare lungo la navata centrale verso l'affresco sopra l'altare da dove intuisce provengano i passi ma seppur continua a sentire che risuonano chiari nell'immobile silenzio circostante, non si vede anima viva.

La lunga fila di lignee panche, mute testimoni, resta immobile come ad aspettar qualcosa che sta per accadere, finché un forte odore di bruciato si propaga e comincia ad appestare l'aria.

Passi, ancora.
Sta impazzendo, o è solamente l'eco dei rumori esterni che rimbalzano fra le colonne e si rincorrono su fra le guglie e gli archi del soffitto?

Spinge piano la porta laterale, quella usata nei giorni che non siano dedicati alla messa, con molta circospezione mette il naso fuori ed esce in strada e sembra che il mondo si sia fermato.
Niente sirene, niente traffico e niente uccelli.
Dalla parte opposta del lungotevere vede le macchine scorrere ma non producono alcun rumore.
Di fronte a sé c'è il nulla, come fosse in un'enorme bolla di sapone che lo impermeabilizza da qualsiasi cosa.
Vede il mondo come se fosse immerso in un acquario, fuori tutto scorre, dentro è tutto rallentato, sfocato e ovattato.

Fa qualche timido passo guardandosi intorno fino al parapetto da dove si può vedere il Tevere, poi una voce stentorea alle sue spalle lo fa quasi capovolgere dallo spavento.
Si gira di scatto e d'acchitto quello che vede non riesce a spiegarlo.

A prima vista sembra un nano, grassoccio e con la faccia rugosa.
È alto per essere un nano ma si vede che è deforme. Le gambe seppur corte sono muscolose e storte, come quelle dei cowboy. La pancia è prominente e scende fino a coprire la cintura dei calzoni.
Le braccia tozze e grosse stringono una catena a cui è legato qualcosa che penzola dietro alla schiena.
Sul viso tondo e pieno di pieghe sta crescendo una rada barba che gli conferisce un'aria distratta.
In testa ha una scoppola di pelle nera. Puzza da far schifo.

"Legione, dobbiamo parlare." Gli dice e si toglie il fagotto da dietro la spalla mostrandoglielo.

Una creatura, una bambina forse, penzola morta dal cappio ferreo che le cinge il collo.
A quale putrido spettacolo sta assistendo?
Cosa sta guardando?
Chi è questo pazzo che se ne va in giro con una bambina impiccata attaccata ad una catena?

Poi la piccola apre gli occhi drizza il capo e dice:
"Tu hai bisogno di me."

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