Frammento: Danietzche

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Danietzche

Mi ridestai in un occulto loco, 
Di finestre orbo, sanz’ombre di porte,
Ravvolto in un lucor nebbioso e roco.

Il petto palpitarmi più e più forte
Mi sentia, più veloce il cor battendo,
Sì che poggiai le mani ond’eran sorte

Le pulsazioni dogliose, cadendo
Quasi in deliquio; indi adimai le ciglia,
Gli occhi in un sonno leggero chiudendo;

Ma una diversa voce maraviglia
Sovvenir femmi al core, e un tal terrore
Ch’al ve’r lo Diavolo solo è famiglia.

Pallidissimo, pieno di livore,
M’apparve innanzi femminil sembiante,
Poscia ch’un fascio di sottil bagliore

La stanza invase, breve e abbacinante,
Lasciando me discernere i contorni
De la creatura tra l’ombre vacante.

Grand’occhi aveva d’atramento adorni,
Siccome di pantere il negro manto,
E smorto il pelo di pitture iborni.

Vidila avvolta in pegoloso ammanto,
Ed una chioma di capei pur anco
De la medesma tinta, negra alquanto;

E due code in fin, orte dal fianco,
Irte e scagliose, d’anguinea natura,
Ch’anguicrinite al co eran financo.

Qual come il prigionier ch’a la futura 
Terra giugnendo sta, però che vede
La sua stessa carcassa tutta dura

Ed impietrita, ch’ancora la sede
De le sue membra a righe nere e bianche
Ravvolge il corpo, ed insicuro il piede

A batter porta più e più forte l’anche,
Sperando di non esser per davvero
Vinto da Morte, così le sue branche

Portò a percuotermi il tergo; poi nero
D’intorno fessi di butto, ed io fui 
Da un tal terror punto, ch’al sol pensiero

Ancora duolsi il cor mio, né l’altrui
Possanza alleggiar puote la doglienza
Che mi punge lo spirto e i frati sui.

«Poeta» pispigliò, «vuoto d’essenza,
Che doti vanti a te disconosciute,
E del dolor fai di te unica scienza,

Fu il Pravo mio Padre, non come pute 
L’animo tuo, a imperare ad Amore
Di compungerti il petto e la virtute;

Per voluntade sua nel mondo afrore
Divelto a te fu il grembo tuo materno,
E raggelato il foco del tuo core.

Il Padre mio, il signor del mondo eterno
Saria felice ad avere con seco 
Un tal poeta ch’é d’ogn’omo scherno!»

Dopo in silenzio quel motto sì bieco
Tornò, tal che pareva in catacomba
Mutato quel loco d’ogni ardor cieco.

Mi rintronò agli orecchi rauca romba,
Da le due rote infocate levata,
Chioccia come la canna che rimbomba.

Le sue pupille di crudele fata
Illuminavano la stanza fioche,
Come due faci in la notte inoltrata,

E cominciò a dir, ancora con roche 
Parole e cupe, le ali svolazzando,
«Ah poeta, poeta, pur se poche

Pagine il Fato ha concesso al tuo brando,
Etterna fia di te la rimembranza,
Siccome me, consorte tua, ch’amando

Soccomberai a colui che sempre avanza»;
Nulla parola uscia da me, né grale,
Poi che ascoltavo tremulo in la stanza;

Poi trapelar fe’ una risata frale 
Da le sue labia pinte di carbone,
Le quai tornàr in albissimo opale.

L’algide piume, come quel d’airone 
Larghe e possenti, m’avvolsero preste,
Tuffandosi Ella qual com’un alcione,

E pascolammo d’in su le labia leste,
Riarsi e paghi, lungi dai mortali,
In fra le tenebrose braccia e peste.

I la guardai, di sangue sporche l’ali,
D’involarsi incapaci ancor, ch’incudo 
Oggi ancor sovra fogli e su altrettali;

Tra le sue braccia leggero ed ignudo,
Felice in fin di quell’esser felino
Ch’avea racceso il cener del mio scudo,

Mi rassegnai ai passi del destino.

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