Frank Sinatra, I

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Trascorse quasi un anno in regime di silenzio. Nel frattempo la malattia aveva cominciato a lavorare sulla figura di mio padre. Le due cose che non dimenticherò mai sono la sua testa calva a causa della chemioterapia e gli occhi verdi svuotati dall'interno. Prima erano vivaci, curiosi, felici, alcune volte (poche) laghi in tempesta. Ora sembravano fissi verso un luogo accessibile soltanto al suo sguardo. Le sue parole si erano diradate, erano diventate semplici utensili comunicativi: mi passeresti questo? Mi porteresti quello? Mi aiuteresti a fare qualcosa? Le cose cose che pensava e provava erano invece per lo più lasciate all'interpretazione. Di tanto in tanto pronunciava qualche frammento di frase, ma il destinatario sembrava l'aria piuttosto che qualcuno di noi. Il non lavorare con continuità mi provocava un senso di nausea molto forte. Mi vergogno a scriverlo qui e ora, ma l'essere obbligato a passare la maggior parte del mio tempo a casa, per il non avere nulla da fare, era una condanna ancora maggiore perché dovevo condividere il mio spazio con lui che rantolava nel letto e mi chiedeva sempre qualcosa.

Papà passava il 90 per cento del suo tempo sdraiato a letto. Riusciva ancora ad alzarsi e fare qualche passo, con uno sforzo immane però. Attraversare una stanza era una maratona. La camera da letto era diventata il suo habitat. Lì leggeva, guardava la televisione, mangiava e poi espelleva. Le tapparelle non erano mai aperte del tutto, per cui nella stanza c'era quasi sempre una sorta di penombra. Mamma era intrappolata lì dentro con lui, tra l'immagine di un'infermiera e quella di una futura vedova. Anche Alberto aveva trovato delle modalità comunicative con papà, seppur minime, paraverbali. Quando eravamo entrambi a casa chiamava sempre prima lui, poi me. Li sentivo, dall'altra parte del muro in cartongesso, scambiarsi qualche parola. Qualche volta papà addirittura si lasciava andare a una risata contenuta. Poi Alberto tornava in camera, io gli chiedevo cosa si fossero detti, lui mi rispondeva che non si erano detti nulla di particolare e si rimetteva al computer. Ero un po' geloso, lo ammetto. Non che facessi qualcosa per cambiare la situazione. Quando chiamava me entravo senza guardarlo, facevo quello che mi chiedeva e tornavo in camera, senza dirgli neanche ciao. Ricordo di non aver scambiato con lui nemmeno una parola per molti mesi. Ma l'ho già scritto: questa era la dimensione del nostro stare insieme. Deserti e diluvi.

Una mattina successe una cosa strana: dalla strada cominciò a risuonare la canzone Fly me to the moon. Inizialmente pensai che fosse un furgoncino che reclamizzava qualcosa, ma la musica non si disperse nel silenzio come era d'aspettarsi. Continuò tutta, allo stesso numero di decibel per tutto il tempo, poi, dopo qualche secondo di pausa ricominciò. Mi accesi una sigaretta in balcone, cercando di capire cosa stesse succedendo, e vidi tutto il quartiere affacciato sulla strada con la stessa mia curiosità. La canzone finì di nuovo e di nuovo ricominciò. Mi venne da ridere. In casa c'era un regime di grande tolleranza verso parolacce e simili, ma due parole erano un tabù. Vietate, bandite da quelle quattro mura: Frank Sinatra. Mio padre lo odiava e, soprattutto, odiava il fatto che nell'immaginario collettivo quella canzone splendida che era Fly me to the moon fosse stata associata a un simile personaggio. Ed era davvero divertente che il primo classico che ascoltavamo dopo mesi di silenzio fosse il pezzo interpretato da The Voice. Spensi la sigaretta e mi diressi verso camera sua per commentare il fatto increscioso. Lo vidi in piedi, aggrappato al davanzale. Guardava giù frustrato dal fatto di non capire cosa stesse succedendo e, contemporaneamente, di non poter scendere direttamente in strada. Rimasi stupefatto dal fatto che avesse impegnato così tanta forza di volontà e fisica per una cosa in apparenza così piccola. Rividi nostro padre, che ci portava ore ed ore in giro alla ricerca di un disco. Le sue gambe tramavano vistosamente, allorché lo raggiunsi e gli prestai la spalla. Lui ebbe un po' di sollievo, ma non durò molto. Non passò un minuto e mi chiese con un lieve strattone di tornare a letto. Trovai davvero lungo il tempo che ci mise a riprendere il fiato. Spostava lo sguardo da un oggetto all'altro della camera cercando le parole giuste. Ruppi io il silenzio.

Fly me to the moonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora