C'erano state così tante candidature che il giorno della selezione avevano predisposto diversi punti per la prova che avrebbe permesso di operare una scrematura iniziale. Io e mio fratello eravamo stati spediti in due diversi punti della città. Il mio corrispondeva ad un alto palazzo in cemento e acciaio, che si allungava verso il cielo in dieci file di finestre a forma di oblò. L'ultimo piano, invee, aveva una forma circolare e chiudeva il parallelepipedo facendolo sembrare un enorme lego scolorato dal tempo. Quando lo raggiunsi alle otto di mattina c'era già un fiume di persone in attesa. Dovevano aver previsto una tale affluenza. Infatti, avevano recintato il marciapiede lungo tutto l'isolato con quelle transenne con il nastro a scomparsa. Girai attorno al palazzo per farmi un'idea su quante persone fossero già arrivate. Lo spazio era già per la metà occupato. Raggiunsi la coda, ma una volta lì un commesso mi reindirizzò verso un gazebo che stava dall'altra parte della strada principale, dove avrei dovuto recuperare un tagliando con il mio numero di matricola. Il cartello che ne indicava la natura di luogo preposto all'accoglienza degli aspiranti lavoratori era scritto in doppia lingua: sopra gli ideogrammi del dialetto mandarino, sotto l'italiano. Ai desk dei container c'erano delle giovani ragazze asiatiche che, fomentando gli stereotipi, pronunciavano le elle al posto delle erre. Le ragazze distribuivano il numerino e, con fare molto cordiale, fornivano indicazioni agli aspiranti: 1) bisognava mettersi in fila in modo ordinato, accedendo dal fondo del percorso recintato e scorrendo lungo il marciapiede fino a raggiungere gli ultimi in coda; 2) il numero assegnatoci non era in alcun modo uno strumento per organizzare le priorità d'ingresso, ma un metodo per lo smistamento delle persone nelle aule dove si sarebbe dovuto svolgere il test, non potendo gli organizzatori della prova prevedere del tutto il numero totale degli aspiranti che si sarebbero presentati quella giornata; 3) una volta entrati nella coda era preferibile, seppur non obbligatorio, restare al suo interno fino alla chiamata da parte degli organizzatori. Era quindi caldamente consigliato espletare qualsiasi nostro bisogno prima di raggiungere i percorso transennato. Il mio numero era il 537. La ragazza me lo appuntò personalmente sulla giacca, preoccupandosi che fosse in bella vista. Ingannai il tempo ancora per una manciata di minuti, bevendo un caffè al bar e leggendo qualche articolo di calciomercato da un giornale sportivo. Dopo circa un quarto d'ora anche io ero nella fila. Per oltre un'ora le persone non smisero di raggiungere il palazzo. Arrivavano ad ondate scandite dai tempi di percorrenza della metropolitana. Sbucavano da sotto il cemento con lo sguardo ansioso ed impaurito di chi era di fronte a un'opportunità lavorativa irripetibile per la propria vita. Con il passare dei minuti il fiume di aspiranti si ingrossò a tal punto che si dovette chiudere temporaneamente al traffico una strada laterale. Un uomo cinese molto elegante, che avrà avuto circa cinquant'anni e che aveva l'aria di essere uno dei capi quella mattinata, spuntò fuori dalle porte a vetro automatiche del palazzo con il cellulare incollato all'orecchio e dialogando in un italiano quasi perfetto con quello che doveva essere il prefetto. In pochi istanti ottenne il diritto di occupazione del suolo pubblico e, immediatamente, ordinò a due suoi sottoposti di drenare la folla sul marciapiede opposto, invadendo la piccola strada. Era passata un'ora e mezza dal mio arrivo e anche i ritardatari erano ormai stati sistemati nella fila, che aveva preso la forma di una esse attorcigliata a due isolati. "Pazientate ancora un poco, l'ingresso avverrà tra quindici minuti circa" era la frase che alcuni commessi avevano ripetuto come un mantra tutta la mattinata alla fila che, lenta e inesorabile, cominciò a dare segni di cedimento. Molti, infatti, approfittarono di quei falsi annunci per uscire dalle transenne e andare a prendere un caffè o scambiare qualche parola con l'amico riconosciuto sull'altro lato della strada. Io approfittai di tutto quel tempo a disposizione per conoscere Ermanno, uno dei più grandi amici di tutta la mia vita.
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Fly me to the moon
Science FictionQuesta storia è ambientata nel futuro, ma parla del passato. Dentro ci sono alcune emozioni (vere, le mie) relative alla malattia di un padre, che non ha poi molte cose in comune con il mio, se non quella di essere morto giovane. Il resto del libro...