La Soffitta, II

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Ma il costo dei dischi non era l'unico problema. Un altro scoglio con cui bisognava confrontarsi era la difficoltà nell'ascoltarli fuori di casa. Era un problema logistico non indifferente. Per risolverlo mio padre aveva recuperato e aggiustato due vecchi Sound Burger, lettori portatili di vinili. Funzionavano sia con i 33 che con i 45 giri. Erano per certi versi una soluzione, ma condannavano chi li portasse a subire le stimmate sociali. Mio papà lo sfoggiava fiero a lavoro, ma i suoi colleghi lo prendevano in giro chiamandolo tra loro "lo strambo". Io non so se lui non se ne accorgesse oppure se non gliene fregasse nulla. Provai comunque una volta a portarlo a scuola e i miei compagni risero di me per tutta la mattina e nelle settimane successive. Non l'ho più riportato. A mio fratello invece gli altri non interessavano. Spesso perdeva l'ultimo pullman utile per arrivare in orario a scuola perché si attardava a scegliere il disco da portarsi. E dal mio punto di vista era meglio che non ci arrivasse proprio in classe perché mi accorgevo della derisione collettiva. Una volta mi picchiai con un altro ragazzo per fare il fratello maggiore protettivo. Lo stava prendendo in giro in cortile durante l'intervallo. Io me ne accorsi per caso, perché fumavo dove stava lui. Quando capii che stava parlando di mio fratello andai fuori di testa: il sangue mi schizzò al cervello e mi avventai su di lui appendendolo al muro. Era più grande di me in tutti i sensi: più alto, più muscoloso e più grande, ma per un istante gli feci paura per davvero. Aveva gli occhi inebetiti di chi viene colto di sorpresa, ma il mio momento di gloria durò poco. Si liberò facilmente della mia presa, poi mi spinse via. Io corsi all'indietro rischiando di cadere in modo ridicolo. Ripresi l'equilibrio, serrai i pugni e cominciai a insultarlo e a urlargli che non si doveva permettere di prendere in giro mio fratello. Non la prese bene. Mi venne incontro veloce e mi diede un pugno sulla bocca dello stomaco. Mi piegai senza fiato e lui ne approfittò per afferrarmi e prendermi a ginocchiate e pugni. Nel frattempo attorno a noi si era formato un capannello di studenti, tutti tifavano per lui. Dopo una decina di colpi si sentì appagato, mi lasciò cadere a terra e se ne andò portandosi dietro il codazzo di supporter. Pensavo mi avesse rotto tutte le ossa. Riuscii solo a girarmi con la faccia verso le nuvole. In bocca sentivo il sapore del sangue che spilava dal labbro inferiore spaccato. Passarono alcuni minuti, il tempo di prendere una nota sul registro perché non ero tornato in classe dopo l'intervallo, scoprii più tardi. A un certo punto un'ombra si allungò tra il mio corpo e il sole. Era mio fratello. Il disco girava nel sound Burger, ma non lo ascoltava, dalle cuffie che teneva attorno al collo si intuiva una canzone blues.

- Cosa è successo?

- Ho picchiato uno!

- Ah, sì? E lui dov'è? All'obitorio? in paradiso?

- Io ti difendo e tu fai l'ironico? Grazie Albi

- Tu cosa?!?

- Ti stava prendendo in giro per quel coso lì che ti porti sempre dietro

- E tu ti sei sentito in dovere di rimediare all'onta della casata?

- Ah ah

Mi aiutò a mettermi seduto e si sedette vicino a me, mi passò una cuffietta, premette play e ci fumammo una sigaretta, in silenzio. Pinetop Perkins, How long blues.

C'era anche un problema di spazio. I vinili erano voluminosi e non potenzialmente infiniti da archiviare come la musica digitale. Ma quello, diceva mio padre, era il bello della musica analogica: bisognava scegliere. Per quel motivo conservava una lista nella tasca del giubbotto. Aveva dedicato ai dischi la soffitta che affittavamo insieme all'appartamento. Era un posto inospitale: senza piastrelle, male illuminato, caldo d'estate e freddo d'inverno. L'unico termosifone serviva soltanto a ridurre l'umidità e favorire la conservazione della collezione. Molte domeniche pomeriggio mio papà le passava lì, fino a quando la cena non era pronta. Mia mamma urlava minacciosa dalla cucina e, dopo qualche minuto, le sue gambe spuntavano dal soffitto e scendevano dalla scaletta. A noi due quel luogo era precluso, quindi era il più grande dei nostri desideri. D'estate, quando sia mamma che papà erano a lavoro e noi a casa da scuola, ci intrufolavamo su e attaccavamo i dischi. Eravamo bambini. Una volta, inaspettatamente, papà tornò a casa prima e ci trovò in soffitta. "Andrea! Alberto!", urlò. Ci acchiappò impietriti e ci trascinò giù nell'appartamento, ci sculacciò e ci mandò in punizione in camera. "Non provateci mai più!", gridò dall'altra parte del vetro della porta. Aveva paura che rovinassimo qualcosa o, peggio, che rovinassimo noi giù dalla scaletta. Tornammo comunque in soffitta di nascosto fino a quando non diventammo abbastanza grandi da non poter fare danni, secondo lui. È lassù che io e mio fratello abbiamo costruito il nostro universo. Fumavamo le prime sigarette in soffitta, ascoltando la musica e parlando la musica. Non eravamo mai d'accordo su niente e finivamo quasi sempre per litigare:

- Se dovessi descrivere la felicità con una canzone quale sceglieresti?

- Perfect Day di Lou Reed

- Ma che dici, quella è la canzone più triste del mondo probabilmente

- Non è vero! È la storia di due innamorati al parco. Non c'è niente di più felice di due innamorati al parco.

- Sì, certo. Lou Reed parla del suo rapporto con la droga: è semplicemente un giorno perfetto, sono felice di passarlo con te. È l'eroina, come fai a non capirlo? Ingenuo.

- è proprio questo il bello. Immaginati Lou Reed, tossicodipendente, mezza vita ad emarginarsi perché non sapeva che farsene di quella società. Poi a un certo punto capisce che anche dare da mangiare agli animali allo zoo può essere perfetto. E allora sì che capisce veramente che cosa sia la felicità.

- Musica triste + voce greve = pessimismo cosmico e tanta ironia. Mi sembra assurdo che tu non colga banalità del genere. Comincio a sospettare che tu abbia dei ritardi mentali.

- Vaffanculo Alberto

- ok

Lo lasciavo solo e mi chiudevo in camera maledicendolo. Però anche litigare così era stato un ottimo modo per conoscerlo. Quando rientravo a casa mi bastavano poche note per capire come stesse. E così per lui. E gli altri? Estranei e lontani da quella soffitta. La musica ricopre un posto centrale nella vita di un quindicenne e a noi quella contemporanea era preclusa.

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