Frank Sinatra, II

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In camera papà era sdraiato con la faccia al soffitto. Quando mi sentì entrare si girò dandomi la schiena. Provai a parlargli, ma non mi rispondeva, faceva finta che non ci fossi.

- ci ho messo un po' più del previsto, e allora? - a quella domanda non riuscì a ignorarmi oltre.

- e allora io ti stavo aspettando

- te l'ho già detto: ho incontrato Michele, non lo vedevo da un sacco di tempo

- Sì, ma Michele non ha il cancro. Hai tutta la vita per incontrarlo di nuovo

- adesso non buttarla sul senso di colpa, per favore

- Senti. Fino a prova contraria sono io quello malato e la butto dove e come diavolo voglio.

Sbottai. Gli vomitai addosso tutta la frustrazione che avevo accumulato in quei mesi. Gli dissi che era un grande egoista, perché non si era alzato dal letto neanche per mangiare con noi e poi era bastata una canzone per metterlo dritto in piedi. Per non parlare del fatto che aveva sequestrato la soffitta ed era quasi diventato un reato anche solo fischiettare. Ci aveva costretti tutti a gravitare attorno alla sua malattia, aveva distrutto la nostra casa e la nostra felicità. E ora mi rimproverava per una canzone di Frank Sinatra? Perché ci avevo messo due ore ad eseguire gli ordini? Sbattei la porta della sua camera, poi la mia e mi buttai nel letto. Poco dopo dalla cucina cominciarono a provenire dei rumori. Erano il microonde, la porta del frigo che si apriva e richiudeva, le ceramiche dei piatti e i vetri dei bicchieri. Papà entrò piano in camera per dirmi che il pranzo era pronto. Mangiammo senza dirci nulla, solo ogni tanto gli sguardi si incrociavano un istante. La televisione trasmetteva alcuni cartoni animati, ma noi non le davamo alcun peso. Mi stava chiedendo scusa a modo suo. Io però non ero ancora pronto a fare la pace.

- Quindi riesco ancora a farti arrabbiare ogni tanto.

Mi spuntò un sorrisetto spontaneo in faccia. Avrei voluto prendermi a pugni per farmelo sparire, per non dargli la soddisfazione di avermi disinnescato, di aver spento in una frase tutta quella rabbia che avevo accumulato nei suoi confronti nei mesi passati. La mia rabbia muta e violenta, introversa, che si faceva osservare dallo sguardo. Brusca, permalosa, risentita. Coltivata a lungo come una fiammella. L'aveva spenta con un soffio. Presi il piatto e andai in camera a finire il pranzo. Ero affezionato alla mio orgoglio e alla mia ostinatezza. Lasciai il pranzo mezzo pieno sul lato della scrivania e accesi il computer. Come un tic, aggiornavo gli stessi quattro siti. Dall'altra stanza sentivo il rumore del ferro che toccava la ceramica. Era lui che mangiava come se nulla fosse successo. Perché non veniva a chiedermi scusa? Lo sentii di nuovo armeggiare in cucina poi entrò in camera mia

- Mi porti a conoscere Frank?

Colpito e affondato. Mi misi addosso le prime cose che trovai e uscimmo sul pianerottolo. Non era facile portarlo giù, così, per due piani, ma una volta acquisita la tecnica almeno l'impresa non sembrava così impossibile. La sedia a rotelle era una soluzione home made. Anche per quelle la procedura di assegnazione gratuita da parte della sanità pubblica era macchinosa, e gli esiti non scontati. Quando papà aveva cominciato a patire la malattia in modo più fisico, a non riuscire a camminare, ci informammo per averne una ma la trafila appariva troppo lunga. Io e mio fratello andammo quindi con il signor Carlo per discariche, alla ricerca di una sedia vecchia da rimettere a posto. Il primo sabato mattina andammo a vuoto, il secondo la trovammo. Mi sembrò di essere tornato bambino, alla ricerca dei dischi perduti. Non era messa bene: il telaio era arrugginito, la gommapiuma eruttava dai cuscini, i cerchioni deformati, le camere d'aria bucate, le pedaline per i piedi allentate. La sistemammo in cortile, nelle due settimane successive, con il signor Carlo che dirigeva i lavori. Mamma andava dalla vicina che aveva la macchina per cucire le federe dei cuscini, noi avevamo rattoppato i buchi delle camere d'aria, tolta tutta la ruggine con l'aceto bianco, un lavoro immenso, riverniciato il ferro con uno smalto rosso fiammante. Avevamo fatto raddrizzare i cerchi da un biciclettaio amico del signor Carlo e, ultima cosa, avevamo cambiato i bulloni che tenevano attaccati i piedini alla sedia. Papà aveva osservato i lavori appollaiato sul balcone, con l'aria triste di chi sa di essere estraneo alla vita. Ogni tanto mi sembrava fosse un po' geloso del signor Carlo. La ciliegina sulla torta del restauro fu una targa, che facemmo uguale identica a quelle americane personalizzate. Mio fratello scelse la frase "Riders on the storm", una canzone dei The Doors. A papà piacque l'idea. Era un modello un po' pesante, ma subito non ci facemmo caso. Fu quando dovemmo portarlo giù le prime volte che capimmo l'inconveniente. Mamma da sola non riusciva, noi a malapena. Si trattava di un gioco di equilibri e contrappesi. Bisognava mettersi con la schiena rivolta verso le scale, inclinare la sedia e scendere la rampa, gradino per gradino, ammortizzando il peso con il corpo. Lui agevolava la discesa frenando le ruote con il briciolo di forza che gli era rimasto nelle braccia. Ero sempre nervoso quando compievo questa operazione. Avevo in carico un essere delicato. Quando raggiungemmo la strada, la trovammo per metà ombrosa e per metà luminosa. Il cielo ormai limpido faceva da cornice al paesaggio.

- che bello, il cielo!


Furono le prime parole che disse una volta fuori. Non lo vedeva da giorni. Era una frase atroce nella sua ingenuità. Ci avviamo verso la piazza circondata dagli alberi. Quando arrivammo Frank era muto, che ballava in quel modo enfatico che faceva andare ai matti papà.

- Beh? Ha avuto un calo di voce?

- Credo che tolgano il muto allo scoccare di ogni ora, vuoi aspettare?

- Siamo arrivati fin qui. Sarebbe un peccato non farlo, che ne dici?

- Io non ho niente da fare

Gli sorrisi piano. Lui me ne fu riconoscente. Venti minuti dopo erano le tre e Frank cominciò a cantare, accompagnato dalla solita orchestra che avevo sentito e risentito oggi. Papà ascoltava con quella ruga corrucciata sulla fronte di quando portava a casa i nuovi dischi. Aspettò che si spegnessero le ultime note.

- Non solo hanno deciso di straziarmi i timpani con quell'italo americano amico dei mafiosi. Hanno anche scelto un pessimo formato di conversione. Il suono è chiuso, inscatolato, sembra un mp3... Insomma: questa città è piena di ignoranti, musicalmente parlando sia ben chiaro. Fortunatamente è una bella giornata. Ne valeva la pena uscire un po'. Cosa ne pensi se facessimo una sorpresa a Mamma e ad Albi?

- Cos'hai in mente?

- Prepariamo noi la cena. Prepariamo la pizza fatta in casa. Ho guardato prima il frigo e la dispensa e ho fatto la lista delle cose che ci servono, andiamo al supermercato?

In realtà la sorpresa la fece a me. Quel pomeriggio limpido di settembre fu bellissimo, il più bello probabilmente da quando si era ammalato. Parlammo molto, scherzando, ridendo. Vorrei viverle all'infinito, quelle poche ore di intima felicità tra me e lui.

Passammo una bella serata, tra il cibo e le congetture su che diavolo fossero quegli ologrammi. Per l'occasione papà fece portare giù vinili e lettore. Ascoltammo le altre interpretazioni di Fly me to the moon, meno famose ma decisamente più belle, sosteneva lui: Shirley Bassey, Tom Jones, Marvin Gaye. Tirare fuori quella collezione nella collezione di papà scatenava sempre il dibattito tra me e gli altri tre della famiglia. Per me l'interpretazione migliore era quella dei Groove Armada, senza parole, solo il piano con in sottofondo la batteria elettronica e il sintetizzatore che lo accompagnavano. Mi sembrava il modo più attuale di suonarla. Una canzone da attesa nel traffico, da pullman stipato in città quando si torna a casa la sera. Gli altri tre non erano d'accordo con me. Finiva che mi asserragliavo sulle mie posizioni, ci scaldavamo un po' ma non troppo, poi smettevamo di pensarci. Ci volevamo bene. Quando tutti si addormentarono la ascoltai nelle cuffiette, modalità "ripeti", in balcone sotto le stelle. Faceva ancora caldo per essere settembre inoltrato. Mi sentivo pieno e felice. Un paradosso. Per questo non volevo andare subito a dormire. Volevo tenerla ancora un po' con me quella sensazione.

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