La Soffitta, IV

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Avevo vent'anni ed era un giorno di marzo, uno degli ultimi della mia vita universitaria appena cominciata. Mattina in aula E14 con il sole fuori, pomeriggio a lavoro, pony express sotto la pioggia. Giornata no, pensavo mentre infilavo le chiavi nella toppa, ma da dietro la porta sentivo Wish you were here, la canzone di quando mio fratello era triste. Andai subito in camera sua, ma quando gli chiesi cosa avesse non mi guardò neanche. Le pareti della stanza nostra e di quella dei miei genitori sono perpendicolari. Se sei di fronte a una ti basta girare il collo per guardare dentro l'altra. Spostai lo sguardo sui miei genitori e c'era mia madre che piangeva. Mio padre invece se ne stava zitto, con gli occhi vuoti conficcati per terra.

- cosa è successo?

Mio padre aveva il cancro. Il giorno dopo andammo dal medico di famiglia, il dottor Giustini. Era un uomo sfacciatamente ottimista. Lo odiavo fin da bambino e ogni volta che subivo le sue visite i ripetevo che avrei dovuto cambiare medico, ma la mia pigrizia vinceva sempre sui miei intenti. Lesse il referto delle analisi con sguardo intenso e finto empatico. Noi eravamo appesi al suo giudizio. Passarono pochi minuti, quindi cominciò, con lo stesso sguardo intenso:

- il tumore non è mai uno scherzo

poi sorrise

- fortunatamente sembrerebbe che lo abbiamo preso in tempo

sospirammo

Continuò a lungo a spiegarci cose troppo tecniche perché noi le capissimo e a indicare punti di una radiografia. D'altra parte a nessuno di noi quattro interessava altro dopo la notizia entusiasmante. Dopo il suo monologo tecnico-scientifico si sciolse in un gesto di profonda umanità alzandosi e accompagnandoci alla porta. Prima di salutarci disse che insieme l'avremmo preso a calci nel sedere quel cancro, fendendo l'aria con alcuni pugni. Lo disse a un tono di voce abbastanza alto da fare in modo sala d'attesa sentissero tutti:

- Quindi lei non sa distinguere le mani dai piedi? Speriamo che il tumore non l'abbia sentito! - gli dissi

- Suvvia Andrea, era una metafora, un modo di dire – ridacchiò e mi diede un buffetto

- Mi scusi, perché adesso mi prende a calci sulla spalla? - senza sorridere

Il dottor Giustini ci rimase male, ma non ebbe tempo di replicare perché mi trascinarono via, mentre avevo cominciato a insultarlo sul piano professionale, umano e persino estetico. Poco prima che si chiudesse dietro di noi la porta del suo studio riuscii a urlargli che era un ciccione. Saliti in macchina, mio fratello mi disse che ero stato uno scemo, come sempre. Non la presi bene: gli risposi che semplicemente avevo il coraggio di dire alle persone le cose come stavano anziché fare lo snob preso male e taciturno. Cominciammo a litigare quasi fino alle mani.

Smettetela – urlò mio padre, interrompendoci – non ho bisogno né di essere difeso, né di queste scenate. Il tumore è mio e me lo gestisco come diavolo voglio, capito?

- Ma Giovanni, non parlare così di questi argomenti – mia madre esprimeva il suo disappunto con quel tono un po' di rimprovero, un po' di comprensione. Mio padre inchiodò in mezzo alla strada, che fortunatamente era deserta

- Non ti ci mettere anche tu, Giovanna. Io dico, penso, faccio quello che voglio, capito? - gli tremava il mento mentre parlava. Stava per piangere, ma ingoiò le lacrime. Ripartimmo, silenziosi e tristi.

A casa bastò poco: una selezione di dischi, delle pizze d'asporto e due belle bottiglie di vino rosso aperte al centro della tavola. Eravamo pieni. La puntina si era alzata e l'ultimo vinile aveva smesso di girare. Io buttavo la cenere della sigaretta nel cartone vuoto della pizza.

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