Cantiere, I

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Il corridoio al quarto piano dell'ospedale aveva un pavimento verde di linoleum che rumoreggiava sotto le scarpe. Era mantenuto bene, anche se quella sera uno dei neon stava facendo le bizze: lampeggiava, creando un po' l'effetto da film horror. Appena entrati, attraverso due grandi porte tagliafuoco anch'esse verdi, c'era sulla sinistra il gabbiotto degli infermieri con la parete vetrata, e a destra invece si trovavano tutte le stanze. Dieci in tutto. Due persone per stanza, per un totale di venti pazienti. Mamma aveva ricominciato a lavorare in una piccola fabbrica di una sua ex compagna di classe. Faceva i turni, quindi non poteva andare tutti i giorni a trovare papà che faceva i cicli della nuova terapia. Soffriva molto per questa cosa, ma era inevitabile. Altrimenti non saremmo riusciti a tenere in attivo il bilancio familiare. Così, io e Alberto, quando occorreva, andavamo a trovare papà al posto suo, gli portavamo la cena e soprattutto gli facevamo compagnia. Quando fu il mio primo turno, erano tre settimane che non lo vedevo e a malapena lo sentivo. Papà era nella terza stanza partendo dalla porta tagliafuoco. Erano le diciannove, alla fine del crepuscolo, con le luci già accese per illuminare le stanze. Aspettava la sua cena leggendo un settimanale di gossip che gli era stato procurato dalle infermiere. Il letto a fianco, invece, era vuoto perché il suo compagno di stanza era stato dimesso qualche ora prima. Bussai e lui alzò lo sguardo verso la porta. La malattia lo aveva reso miope quindi indossava un paio di occhiali.

Andrea? - disse esitante

Certo, non mi riconosci?

Dopo tre settimane? Non sapevo più come fosse fatta la tua faccia


Aveva ragione, anche se si stava comportando come un bambino imbronciato che non aveva apprezzato il suo regalo di natale. Mi strappò un sorriso che nascosi guardando verso la finestra, che riflesse le mie occhiaie. Ero tremendamente stanco. Non avevo mai lavorato per più di vent'anni e adesso fare l'operaio dieci ore al giorno, sei giorni a settimana, non era per niente facile. Sbadigliai.

Sei qui da meno di cinque minuti e già ti annoi?


Quando ero diventato il padre di mio padre?

No papà. È che non mi sono ancora abituato ai ritmi di lavoro

Alberto mi ha già raccontato tutto

Devi per forza sottolinearlo?

Ahahah. È sempre facile farti arrabbiare - rise, ma la sua risata vibrò lungo la spina dorsale provocandogli una fitta di dolore. Si rannicchiò su un lato e soffocò un urlo, quindi fece tre respiri profondi e si girò verso di me. Aveva gli occhi lucidi per il dolore.

Che faccio racconto, oppure?

Sì ti prego, non ti immagini quanto ci si annoi qui dentro. E poi lo sai com'è fatto tuo fratello. Bisogna cavargli le parole di bocca. In realtà la maggior parte delle cose che so del vostro lavoro le ho viste in televisione, durante la diretta...allora?


Realizzai il perché non ero passato dall'ospedale per tutto quel tempo. Non volevo che si preoccupasse o che si sentisse in colpa per noi. Una settimana dopo il colloquio arrivò un messaggio ai seicento fortunati. Il numero non era casuale. Rimandava al nome di una macchina che aveva fatto la fortuna di quella fabbrica, il secolo scorso: operazione nostalgia. Ci convocarono a gruppi all'interno di un container poco fuori Torino. A turno ci visitarono in un piccolo studio con pareti mobili, ricavato sicuramente per l'occasione: entravi, appoggiavi il cellulare sulla scrivania del medico, lui scorreva la tua storia clinica con l'indice e in meno di un minuto ti diceva «ok» e ti congedava. In questo modo in meno di due ore fummo dichiarati tutti idonei al lavoro. Ci radunarono quindi sotto un palchetto su cui salì una donna orientale dentro un tailleur nero e scarpe con tacchi molto alti. Attirò la nostra attenzione con qualche frase pronunciata in un italiano perfetto e amplificata da due casse posizionate sopra il palco. Salutò tutti con un sorriso bellissimo e ci ringraziò molto per aver deciso di prendere parte a Fly me to the moon, il progetto che avrebbe rivoluzionato il mondo, quantomeno del turismo. Sotto il palco scoppiammo a ridere: un'ironia chirurgica, da manuale di "come si parla in pubblico" studiato all'università. Infatti, dopo quella battuta cominciò ad elencarci le clausole del contratto. In pratica, in cambio di un lavoro faticoso e non particolarmente remunerativo, noi avremmo dovuto rinunciare a qualsiasi tipo di diritto: il contratto standard prevedeva sessanta ore settimanali; non potevamo riunirci in sindacati; parlare con la stampa di temi inerenti il ponte; non erano garantite né le festività religiose, né quelle nazionali; i giorni di infortunio e di mutua erano pagati al dieci per cento; rinunciavamo, firmando una liberatoria, a qualsiasi azione legale in caso di danni permanenti o di morte condotta da noi o dai nostri familiari. Rimanemmo attoniti. La donna lo percepì dai nostri sguardi e sfoderò una voce empatica:

Cari, so bene quanto possa essere duro accettare simili condizioni. I miei avi, in America, aprivano i varchi nelle montagne con la dinamite per far passare i binari della Ferrovia Intercontinentale. Era un lavoro, quello, che uccise centinaia di persone del mio popolo. E io avrei ben ragione a provare ancora oggi risentimento per il modo in cui fummo trattati. Eppure, a quasi duecento anni di distanza, io provo orgoglio per questo passato: abbiamo contribuito a trasformare il mondo. Ora è il vostro turno e, soprattutto, sappiate come che siete ancora in tempo per rinunciare


E poi se n'era andata lasciandoci soli per circa un'ora. Ecco come eravamo diventati gli operai leggendari di Fly me to the Moon. Nessuno di noi rinunciò.

Come potevo raccontargli questa cosa?

È stata un'esperienza davvero bella, la diretta. Ci hanno portato in uno studio studio televisivo dove ci hanno truccati e preparati all'evento. Prima ci hanno dato delle salopette blu da lavoro e maglietta bianca, poi ci hanno mandato al trucco, dove un po' di fondotinta ci avrebbe resi meno arancioni sotto la luce dei faretti di scena. Una volta pronti, il coreografo ci ha fatto prendere degli attrezzi da lavoro a scopo ornamentale, chiavi inglesi, avvitatori, cacciaviti, quindi ci ha spiegato come e dove avremmo dovuto muoverci nello stadio dove avrebbero fatto la diretta. Chiaramente in molti hanno cominciato a fare i cretini, camminando come se fossero su una passerella. Ovviamente il coreografo ha dato di matto e ha cominciato a urlare qualcosa riguardo al fatto che ci avrebbe fatto licenziare, ma non era il tipo che si potesse prendere sul serio. Dopo un po' anche i più scemi si sono calmati e abbiamo provato. Poi siamo saliti sul pullman che ci ha portato allo stadio. Il coreografo, dietro le telecamere, ci guidava con dei gesti buffi Ci fece passare sotto un arco a tutto sesto di cartapesta, arrivare fino al cerchio di centrocampo e poi girare a destra, andando verso il palco dove l'ad e i partner cinesi avrebbero dato il via al progetto.

Sì, però che sfortuna: non vi hanno inquadrato. Mamma ha registrato la diretta per me e me l'ha portata. L'ho riguardata un sacco di volte, ma niente: nessuna traccia né di te, né di tuo fratello.

Eravamo in mezzo al gruppo, la posizione peggiore per essere inquadrati da una telecamera

Che sfortuna. E non ti sei vergognato neanche un po' di stare in diretta?

Ma no. Era una cosa così stupida

Fly me to the moonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora