Sono un ritardatario cronico. Niente di eccessivo. Accumulo solo pochi minuti, ma in modo sistematico, se non fosse un meccanismo inconscio. Ermanno dava invece l'impressione di essere molto preciso. Infatti, quando il giorno dopo arrivai all'appuntamento alle dieci meno dieci, sembrava che fosse lì da almeno mezz'ora. Il mio ritardo sembrava, però, al di fuori delle sue preoccupazioni. Stava sudando freddo in un completo nero con una fine gessatura grigia. Sembrava completamente paralizzato dall'ansia per il colloquio. Respirava a fatica e spesso si allargava il colletto della camicia con indice e medio, come un cartone animato. Avrei dovuto preoccuparmi così anche io? - Ermanno, calmati, respira – gli ripetei una decina di volte, ma lui era lontano, in un altro luogo da cui emetteva parole sconnesse, come se parlasse nel sonno. Lo trascinai dentro il bar, lo feci sedere e gli portai la colazione al tavolo. Non faceva progressi, quindi cercai il giornale e mi misi a sfogliarlo distrattamente.
- Scusami! - quella parola mi colse impreparato. Lo guardai con un punto interrogativo stampato sul volto – Ho una terribile fobia relativa ai colloqui. Mi paralizza anche solo il pensiero di doverne sostenere uno.
- E come hai fatto a laurearti, scusa?
La mia domanda gli risuonò dentro come una formula magica. Ermanno si ricordò all'improvviso di come aveva fatto a superare tutti quegli esami orali. Centinaia di ore dedicate alla respirazione addominale e agli esercizi di meditazione. Espulse tutta l'ansia con una breve serie di dieci inspirazioni ed espirazioni ad occhi chiusi. Il suo addome, pieno d'ossigeno, s'incastrava nel tavolino prima di svuotarsi. Quando alzò di nuovo le palpebre il suo viso aveva assunto un nuovo disegno. Le linee erano più morbide e la pelle aveva ripreso colore. Non sudava più. Bevve rapidamente il caffè ormai tiepido e asciugo con un'eleganza che sembrava non sua i residui della bevanda accumulatisi sui baffetti. Mangiò poi con la stessa velocità la pasta alla crema che gli avevo portato. Nel mondo di farlo tornò ad essere quell'immagine di Ermanno che mi ero fatto nella testa. Lo zucchero a velo svolazzava sul completo ad ogni morso e, arrivato al centro di quel dolce, un po' di crema cadde sul bordo del tavolino, rischiando seriamente di compromettere i pantaloni. Una volta finito si alzò impaziente, poi diede alcuni schiaffi al completo per rimuovere i residui, quindi si rivolse a me:
- Credo che i nostri amici venuti dall'oriente apprezzeranno la puntualità, per cui proporrei di appropinquarci al luogo dell'appuntamento.
La sala dove ci fecero attendere era quel cilindro piatto in cima al palazzo con le finestre a forma di oblò dove avevamo sostenuto il test il giorno precedente. Gli interni rispettavano il progetto architettonico esterno. La stanza era molto ampia e a forma circolare e su di essa si affacciavano otto porte. Le due tagliafuoco, che stavano una di fronte all'altra, servivano a raggiungere le scale e gli ascensori, mentre le rimanenti sei presupponevano altrettanti uffici. Era in tre di queste stanze che avremmo dovuto sostenere i colloqui. A dirci questa cosa fu lo stesso signore che aveva fatto bloccare il traffico. Dopo le due brevi indicazioni che ci diede, l'uomo sparì senza più farsi rivedere, non prima però di appendere al muro l'elenco ordinato dei nostri nomi. Ermanno era uno tra i primi, io invece facevo parte degli ultimi dell'elenco. Ovviamente, prima di congedarsi ci disse che, seppur non obbligatorio, sarebbe stato preferibile aspettare nella stanza fino alla chiamata. Prima si scomparire appese. Ermanno mi sorrise dandomi di gomito. Ci concessero però la possibilità di fumare sul pianerottolo degli ascensori, dove alcuni finestroni erano stati aperti per far uscire il fumo. Fu una scelta saggia. Credo che l'astinenza da nicotina avrebbe fatto scoppiare una rissa epocale in quella stanza di ragazzi disperati, tutti pressati per bene nel locale. Infatti, sebbene la stanza fosse molto ampia, le sedie non erano sufficienti per contenere tutti i e centocinquanta i candidati sopravvissuti al test. Ci volle poco quindi perché la maggior parte di noi si accampasse e cominciasse un brusio di lamentazioni perpetuo che sfociava sovente in insulti razzisti rivolti ai nuovi partner della F-MIM, i nostri effettivi datori di lavoro. L'effetto ansia collettiva accrebbe, e con lui le lamentazioni, quando scoprimmo che tutti gli uffici avevano una porta sul retro, dalla quale coloro che avevano sostenuto i colloqui dovevano scendere per raggiungere a pieni il piano sotto e, da lì, prendere l'ascensore: destinazione piano terra. In pratica non potevamo sapere come fosse andato il colloquio di quelli prima di noi. L'attesa divenne così molto snervante: due persone litigarono per un presunto pestone, mentre uno fu allontanato dal gruppo perché aveva scroccato un numero di sigarette ritenuto eccessivo dai più. Io mi aggiravo nel cerchio, contando compulsivamente le cose nella stanza. Misuravo il tempo medio dei colloqui e provavo a prevedere in quale delle tre porte avrei dovuto sostenere il mio. La porta cambiava ogni volta che ripetevo il conto. Poi mi concentrai sull'elenco di nomi, prima per capire se ci fosse stato qualcuno che conoscessi per scambiare due chiacchiere (vanamente), poi per cercare delle spiegazioni riguardo al criterio con cui ci avessero ordinati. Riuscii a darmi come unica motivazione il punteggio del test del giorno prima e, siccome nell'elenco il mio nome era in basso, al centoventicinquesimo posto, sprofondai nell'ansia più totale. Era come se mi fossi accorto solo in quell'istante di quanto fosse importante la posta in gioco. Tutto il nostro brandello di speranza si poggiava sull'improbabile alchimia di essere assunti entrambi. Fino ad allora invece avevo vissuto quella selezione come un eccitante fuoriprogramma che aveva spezzato la monotonia. Ora però che mi trovavo a un passo da quel lavoro sentii il peso di tutto questo. Andai in quell'anticamera dedicata ai fumatori e cominciai a fumare sigarette una dietro l'altra. Provavo a stemperare l'ansia attraverso i dettagli: concentravo tutta la mia attenzione sulla testa ardente che bruciava il cilindro ad ogni boccata. La guardavo estinguersi, respiro dopo respiro, e aspettavo che si cancellasse il nome della marca stampato proprio sopra il filtro. Non serviva. Avevo lo sguardo puntato sul nulla. Guardavo, non osservavo. Nella testa continuava a rimbombare forte l'ipotesi del fallimento. Provai anche a fare quegli stessi respiri di Anselmo, ma mi accorsi presto che in me non avrebbero sortito il risultato. Contai le piastrelle. Tre volte. Misurai con i miei passi lunghezza e larghezza di quello spazio ormai denso di nicotina. Lo feci molte volte. Ogni tanto buttavo lo sguardo dentro per assicurarmi che non mi avessero dimenticato lì.
- Andrea?
Mi girai come se dopo secoli di buio avessero acceso la luce.
- Sei Andrea, vero?
Annuii soltanto. Dovevo avere lo sguardo spalancato e spaventato.
- Sei il prossimo nella lista. Preparati.
- Michael Bloomworth, nice to meet you – Aveva una stretta di mano vigorosa e piena di sé, di quelle che dalla California e dalla Florida aveano colonizzato il mondo nel secolo precedente. Mike, come disse di chiamarlo qualche istante dopo, era un cinquantenne statunitense, venuto lì per fare da mediatore culturale. I Cinesi, diceva lui, nonostante fossero diventati i più potenti del mondo, avevano ancora qualche problema a comprendere noi occidentali. Quindi avevano chiamato i loro fratelli americani per fare in modo che ci si capisse per bene.
- Andrea xxxxxx, nice to meet you
- Well Andrea, tell me something about you
- I'm 25 years old, and I live in this city since I was born. I work occasionally in the field of tourism, and...
- Stop, stop, stop! Very good, anzi molto bene. Pochi dei tuoi compagni, colleghi hanno saputo parlare l'inglese, do you know?
- Siamo famosi per il nostro pessimo Inglese
- Yes, ma è unaccettabile questo! Viviamo in un mondo connesso e se non parli l'inglese sei fuori da questo, come si dice, connessione. I mean, come è possibile non conoscere questa lingua nel 2060!
- Beh, non saprei...
- E anche con la vostra madre lingua siete un disastro. You made a mess in the test!
- Io?
- No. You, voi. Il tuo esame era buono. I maggiori degli altri invece non sono andati bene! È la vostra lingua, come è possibile che non la conoscete? - Non risposi nulla e lui capì che era giunto il momento di cominciare il colloquio vero e proprio – Well, Andrea. Tu sei un candidato perfetto per F-MIM! However, voglio chiedere perché vuoi lavorare lì!
- Era la domanda che mi stavo facendo anche io prima – gli dissi abbozzando una risatina scaccia ansia. Ma quando alzai lo sguardo mi accorsi che il momento per i convenevoli era finito, che lui aveva cambiato completamente espressione. Non sembrava più il cowboy cazzone e pieno di sé, ma un esperto pronto a passare al microscopio ogni mia singola parola. - Mio padre! Lo faccio per lui. Sta morendo, ma sembre ci sia una cura. Il problema è che costa tanto, quindi devo lavorare per pagargliela.
- Tutti disperati in questa città – disse esilmente. La sua voce era un ossimoro: pacata e calda, comprensiva e distante – Tu sei un buono candidato, ma ti devo dire che è un lavoro molto faticoso e pericoloso soprattutto. Morte del padre malato è una brutta cosa, ma morte del figlio sul lavoro è una vera tragedia. D'you know what I mean? - Annuii ancora, facendo capire a Mike che sì, lo sapevo ma non avevo molta scelta – Well. Il lavoro è tuo allora – mi rivolse un sorriso velato di tristezza – You're a good guy, Andrea! - Mi strinse di nuovo la mano. Anche quella aveva un'altra consistenza rispetto a quando ero entrato nella stanza del colloquio. - break the legs.
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Fly me to the moon
Ciencia FicciónQuesta storia è ambientata nel futuro, ma parla del passato. Dentro ci sono alcune emozioni (vere, le mie) relative alla malattia di un padre, che non ha poi molte cose in comune con il mio, se non quella di essere morto giovane. Il resto del libro...