Capitolo 11. Tutto quello che faccio, lo faccio per te

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Non dirmi che non vale la pena tentare

Non puoi dirmi che non vale la pena morire

Tu sai che è vero

Che tutto quello che faccio, lo faccio per te...


Dopo essersi lanciato in aiuto di Edmund e Caspian con un coraggio che non sapeva di avere, Eustace si era visto circondare da un'orda di soldati di Calormen armati di tutto punto.

E va bene, i soldati erano solo due, ma le scimitarre che impugnavano sembravano davvero molto affilate e il sudore freddo aveva cominciato a scorrere sulla fronte del ragazzino.
«Sono finito» aveva debolmente mormorato prima di coprirsi la testa con le braccia.
I due nemici si erano lanciati all'attacco, Eustace si era abbassato, e quelli si erano colpiti a vicenda.
Se quella non era fortuna...
E non avendo alcuna intenzione di sfidarla un'altra volta, si era messo a correre a perdifiato verso il porto.
Totalmente in preda al panico, aveva una sola cosa in mente: raggiungere il Veliero dell'Alba, chiedere rinforzi ai marinai rimasti a bordo e poi rifugiarsi nella sua cabina.
"E chissenefrega del parere dei miei cugini!"
Gli avrebbero detto che era un coniglio, ma a Eustace non importava nulla. Era già stato abbastanza coraggioso per quel giorno.
Andava controcorrente rispetto alla folla di persone che si riversava in piazza dagli altri punti della città, per dar manforte a quelli di Narnia, venuti a liberarli. Nessuno badava a lui. Non poteva chiedere di meglio. In quel modo non rischiava di essere seguito da nessuno. Arrivò alla banchina e sospirò di sollievo nel vedere che le due scialuppe con le quali erano sbarcati erano ancora lì. Si accostò a quella più vicina, armeggiò per alcuni minuti con la corda con cui era stata assicurata, poi saltò su, si sedette composto e aspettò.
«Su! Andiamo!» sbottò, dando un colpo sulla fiancata. «Sei una barca in una terra magica, non sai governarti da sola?»
Si rese perfettamente conto di essere ridicolo nel rivolgersi ad una scialuppa, ma se laggiù gli animali parlavano, perché non gli oggetti?
Sbuffando, ridiscese sulla banchina. Non gli era mai piaciuto andare in barca – soffriva il mal di mare, in primis – erano i Pevensie quelli che amavano le scampagnate e le gite al lago, non lui.
Litigando con un remo evidentemente troppo pesante per lui, non si accorse dell'uomo che strisciava alle sue spalle. Zoppicava, lasciando una striscia di sangue a ogni passo. In mano brandiva un pugnale affilato, la punta lucente nel sole del mattino.
La fortuna fu ancora un volta dalla sua. Il remo e la sua goffaggine lo salvarono. Eustace perse l'equilibrio, girò su sé stesso per non cadere, il remo ancora tra le mani. Con una delle estremità colpì in pieno viso il suo aggressore, che cadde a terra esanime.
«Ops! Accidenti! Spero non sia il console britannico»
Eustace lasciò cadere il remo e fissò per qualche istante lo sconosciuto, che poi riconobbe come il mercante di schiavi Pug – o come diavolo si chiamava. Il viso era coperto di tagli ancora freschi e qualche livido rosso e violaceo; gli abiti laceri in più punti, zuppi d'acqua, come se fosse caduto in mare.

«Oh, mamma! Mica sarà morto?!». Eustace allungò un piede verso l'uomo, lo stuzzicò piano piano, ma quello non si mosse.
In un certo senso era una gran cosa aver steso proprio il mercante di schiavi, gli altri sarebbero stati contenti, no? Era meglio andare a chiamarli.

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