Capitolo 23

563 31 6
                                    

Elena's pov

Ero sul divano, ai miei piedi c'era spugna, si era addormentato così facilmente, quasi lo invidiavo. Erano le 22:45 e io non avevo intenzione di dormire. Non ci riuscivo. Ero ancora troppo scossa da ciò che successe quella mattina. Andai in camera da letto, ovviamente facendo attenzione a non svegliare spugna, e presi il suo borsone da palestra, insieme ai suoi pantaloncini e una maglietta. Dovevo scaricarmi. L'unico modo per farlo era andare a scaricarmi col sacco da box. Da piccola praticava kick boxing (simile al pugilato ma con l'aggiunta dei calci), ma poi ho iniziato a cantare e ho trascurato quello sport.

Niccolò aveva dei suoi vecchi guantoni nell'armadio, li presi e li misi nel borsone. Mi feci una coda alta e scesi nella palestra accanto a casa, sempre aperta anche di notte. Entrai nell'edificio, salutai tutti e mi diressi nella sala da box. Feci un sospiro. Infilai i guanti e iniziai a tirare pugni a raffica contro il sacco. Si aggiunsero i calci. Ogni pugno e calcio urlavo. Facevo uscire la mia rabbia. Tirando un pugno gridai "me la pagherai stronzo", quel pugno fece un lieve buco nel sacco. Poi un calcio "stavolta l'hai fatta grossa, non scappi" urlai e rimase la forma del mio calcio nel sacco. Mi fermai. Ero sudata. Le lacrime minacciavano di scendere. Gli occhi lucidi. Il fiatone. Il viso rosso, per la rabbia e per lo sforzo. Mi accasciai a terra, le mani sul viso. Le lacrime cominciarono a scendere. Urlai. Per fortuna c'ero solo io in palestra. Strinsi i pugni e mi alzai. Mi diressi nello spogliatoio e mi cambiai.

Tornai a casa che erano le 23:30 avevo fame, forse per lo sforzo, forse perché volevo riempire con qualcosa il vuoto che avevo dentro. Sapevo benissimo che quel voto si sarebbe colmato, però, solo con un suo abbraccio. IL suo abbraccio. Quello della persona che aveva creato la mia felicità. Presi un gelato dal frigo e mi misi distesa sul letto. Guardavo il soffitto. Ricordai tutto quello che avevamo vissuto insieme. Risate. Pianti. Baci. Abbracci. Amore. Un sorrisetto mi scappò a pensare a quando si ubriacò apposta per vedermi. Una lacrima mi rigò il viso. Avevo bisogno di lui. Con la sua mano intrecciata alla mia, quel mondo, avrebbe fatto meno schifo.
Mi alzai dal letto, non prendevo sonno, andai in cucina. Ancora non riuscivo a sfogarmi. Un pacchetto di sigarette stava sul tavolo. Quella mattina l'aveva dimenticato lì. Non avevo mai fumato, e né avevo mai provato, ma dovevo sfogarmi. Ne presi una. La guardai. Non avevo il coraggio di farlo, sapevo benissimo che se lui fosse stato lì, con me, me l'avrebbe tolta dalle mani e mi avrebbe rimproverata. "non fumare mai, meriti di vivere per sempre" mi diceva spesso "e tu perché fumi?" "perché ormai ho un vizio, tu non lo prendere, la mia Wendy deve essere sana, che se te ne vai tu, sta terra cade" diceva sempre in risposta, allora io gli rispondevo "smettila anche tu, che se te ne vai, io vengo con te" subito dopo mi baciava. Il suo odore in quei baci era speciale, un insieme di produmo maschile, tabacco e schiuma da barba. Mi godevo sempre quei baci. A questo ricordo mi scivolò una lacrima sul viso.

Piansi. Piansi amaramente. Era tutto il giorno che piangevo. Ma dopo tutto chi mi aveva salvato la vita era in ospedale. In un limbo. Un limbo che non si sa quanto si sarebbe potuto fermare. Cosa dovevo fare se non piangere?. Mi addormentati fra le lacrime e i singhiozzi.

Era mattina. La luce che filtrava dalla finestra mi arrivò direttamente in faccia. Mi alzai velocemente dal letto. Volevo correre da Niccolò, abbracciarlo anche se non era sveglio e tenergli la mano. Diedi a spugna del cibo. E andai in bagno per cambiarmi. Dovevo lavarmi. Sembravo un cadavere. Tolsi i vestiti e entrai in doccia. Flash: lui che è con me in doccia, mi strofina il bagnoschiuma sulla pelle, i baci, le carezze, LUI. Tutto, tutto, mi riportava a lui. Lui che mi rendeva felice. Che sapeva farmi sorridere. Lui che mi aveva difesa. Lui che mi amava. Lui.

L'acqua calda accarezzava il mio corpo. Mi cullava. La mia pelle liscia sotto quel getto d'acqua si rilassava. Avrei preferito essere lì con lui, ma era proprio lui il motivo per cui mi facevo la doccia. Dovevo correre in ospedale. Mi mancava troppo. Mi mancava estremamente.

Uscii dalla doccia, mi asciugai i capelli e mi misi dei semplici leggings e una maglietta sportiva. Dopo aver salutato spugna mi infilai in macchina. Corsi verso l'ospedale, facendo partire la playlist che avevo sul cellulare. Iniziò Giusy. La mia canzone. La canzone che anche lui mi aveva dedicato. Strinsi i pugni. Accellerai e arrivai velocemente in ospedale. Corsi alla sua camera. Aprii la porta, Adriano e Francesca erano ancora lì. Erano rimasti lì tutta la notte. Le finestre chiuse, dormivano ancora uno appoggiato all'altro. Aprii la finestra e li svegliai. Si stropicciarono gli occhi e sbadigliarono
E: buongiorno piccioncini dissi con voce rauca per via del pianto della notte
F: buongiorno Ele, hai pianto molto? Chiese con voce ancora impastata col sonno
A:buongiorno tesoro disse Adriano dolce, non mi aveva mai chiamata così, ma forse l'accaduto ci aveva legati così tanto che ormai mi considerava una sorella
E: wow, un esemplare di Adriano dolce, comunque no...non ho pianto tanto dissi mentendo l'ultima frase, Francesca se ne accorse e scosse la testa, sapeva benissimo che avevo passato la notte in lacrime. Mi avvicinai alla finestra, guardai fuori, era tutto così bello, quando...scorsi una figura, quella figura l'avrei riconosciuta tra milioni di persone. Correva veloce, entrò in una casa abbandonata.
E: s-scusate, io...devo andare a fare una cosa dissi inventandomi una scusa, corsi fuori dall'ospedale. Forse avrei dovuto dare una scusa più credibile. Perché, Francesca mi seguì, sapeva che avevo qualcosa in mente e non voleva la facessi da sola. Io non sapevo fosse con me. Avrei dovuto fermarla.

Entrai in quella casa abbandonata. Sentii degli scricchiolii provenire dal piano di sopra, passi, passi pesanti. Chiusi gli occhi. Feci un respiro. La rabbia mi usciva dalle orecchie. Salii piano e silenziosamente le scale. Appena arrivata al piano di sopra lo trovai di spalle. Aveva in mano una sigaretta, e nell'altra un coltello. Mi avvicinai lentamente a lui, volevo sfilargli il coltello
C: ma ciao Elena, vedo che nemmeno stavolta sono riuscito ad ammazzarti disse continuando tranquillamente a fumarsi la sua sigaretta

Spazio autrice
Mi odierete perché sto fermando proprio qua la storia, ma io vi amo lo stesso. Ditemi che ne pensate. NON SIATE SILENZIOSI❣️

forse era destinoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora