11. Gay è chi il gay fa

4.1K 342 601
                                    


Ogni giorno che passava Harry si stava convincendo che trasferirsi a Londra fosse stata una delle peggiori decisioni che avesse preso in vita sua. Contrariamente al suo solito, non stava riuscendo a farsi amici. Buona parte dei compagni di squadra lo trattava con indifferenza, compresi il capitano Gus e i suoi sodali veterani, che si limitavano ogni tanto a lanciargli qualche distratta presa in giro chiamandolo Jem. Raul Begum lo odiava apertamente. L'unica piacevole eccezione era Andy: ma Harry non era il tipo che amava interagire ossessivamente con una singola persona all'interno di un gruppo, isolandosi dagli altri.

Probabilmente il fatto che Harry fosse evidentemente il più scarso di tutti non aiutava a renderlo più simpatico, né ai compagni né all'allenatore, che sembrava detestarlo, e non solo per l'imperdonabile atto di essersi tinto, nel passato, i capelli di un colore poco mascolino.

Aveva da subito preso l'abitudine di fermarsi mezz'ora in più dopo la fine degli allenamenti, per continuare a esercitarsi, soprattutto negli scatti e nell'agilità. Non era certo che fosse una buona idea, stanco com'era alla fine di una giornata di studio (aveva l'esame di Anatomia, a fine mese) e due ore e mezza di attività fisica, ma aveva l'impressione di essere un po' migliorato, da quando lo faceva.

Ogni volta che si trovava da solo, nel campo ormai deserto, non poteva evitare di pensare a Louis. Lui lo aveva sempre fatto: fermarsi un'ora in più, iniziare un'ora prima. L'aveva fatto durante l'infanzia, l'aveva testardamente fatto durante i due anni in cui aveva perso il talento a causa del desiderio di Liam, e aveva continuato a farlo quando il talento l'aveva riavuto indietro.

Harry era certo che continuasse a farlo ancora. Era arrivato dove era arrivato anche grazie a quelle ore in più. Era arrivato dove era arrivato perché aveva sudato e lavorato ogni giorno con dedizione. Harry voleva dimostrare a se stesso che anche lui poteva farcela. In minore, ma poteva farcela.

«C'è la classe di recupero per i bambini handicappati a quest'ora?» Due grasse risate all'unisono annunciarono l'arrivo di Raul e Serafin.

Serafin Konjuh era la persona più sgradevole di tutto lo spogliatoio. Harry lo trovava persino più sgradevole di Raul, che per lo meno era ostile in modo aperto, senza sotterfugi.

Serafin era viscido: sempre pronto a umiliare e prendere in giro chi gli sembrava la parte più debole, e la parte più debole poteva variare di momento in momento, quindi aveva un comportamento cangiante, ambiguo. Approfittatore.

Era titolare fisso, in squadra. Centrocampista offensivo o trequartista, a seconda del modulo. Un venticinquenne serbo che viveva in Inghilterra da quando era un ragazzino e parlava inglese meglio di metà degli inglesi dello spogliatoio. L'unica cosa che rivelava la sua nazionalità era un lievissimo accento. Sembrava un tipo intelligente, a volte persino divertente. Ma Harry non si faceva abbindolare dai suoi modi e dalle sue battute.

«Buonasera» rispose Harry, interrompendo l'esercizio (dribbling coi coni). Si rivolse a Raul, autore del raffinato umorismo. «Vuoi unirti a me? Sicuro un po' di esercizio extra ti sarebbe utile per la ciambella addominale.»

Raul lo fissò per qualche istante con uno sguardo poco sveglio, prima di capire che Harry si stava riferendo alla sua pancia. Serafin, invece, che aveva capito subito la battuta, era scoppiato a ridere. Raul reagì alla risata tirando uno spintone al compagno, poi si avvicinò a Harry con fare minaccioso.

«Che cazzo hai detto?»

Harry non indietreggiò e Raul arrivò a fissarlo a due centimetri dal suo naso.

«Che cos'è questa confidenza?» gli disse Harry in faccia. «Vuoi pomiciare? No grazie, hai un alito che stenderebbe un elefante.»

Serafin scoppiò a ridere di nuovo.

L'ultimo evocatore - Larry StylinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora