1. Addio Dino

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Stanotte ti ho sognato e non eri cambiato di una virgola. Eri e sarai sempre la stessa identica persona incapace di controllarsi. E io mi chiedo, a me chi ci avrebbe pensato ora?
Sei stato un vile egoista a lasciarmi qui a piangere addosso al tuo corpo gelido, come il marmo sulla quale tua sorella minore ti ha trovato disteso.
Avevi preso Lexodan e Valium in un mix letale che ti ha causato un arresto cardiaco.
Mentre io stringevo fra le mani il frutto delle nostre notti insonni, tu ingerivi un veleno che ti avrebbe fatto dormire per sempre.
Ho la vista annebbiata se tento di ricordare i secondi che precedono la notizia della tua scomparsa.
La sera in cui fummo chiamati corremmo a casa tua, ricordo che Niccolò non aveva mai corso così tanto come quella sera.
Non parlavamo, ci eravamo chiusi in un mutismo cronico entrambi. Mia madre non era riuscita spiegarmi bene quello che stava succedendo ma solo quando Niccolò chiamò tuo cugino Riccardo tutto ci fu chiaro, gli spiegò cosa stesse succedendo ma a me lo disse solo prima di salire le scale del palazzo.
C’era tutto il vicinato, alcuni parenti accorsi in pigiama e i paramedici che provavano a rianimarti.
C’erano siringhe di adrenalina, lacci emostatici e sangue intorno a te.
Eri steso a terra immobile e rigido, tua madre in ginocchio accanto al tuo cadavere, tua sorella nella stanza di fronte sotto shock e poi c’ero io.
Inerme sotto l’arcata della porta.
Ricordo di aver urlato e poi di essere stata portata via a casa da mio padre, che era accorso nel frattempo.
Non parlavo, non mangiavo, volevo solo la compagnia di Niccolò.
Restammo nel letto a piangere per tre giorni, senza spiccicare parola con nessuno, neanche tra noi.
Solo quando l’autopsia fu terminata e il tuo corpo restituito alla famiglia ci facemmo coraggio ed uscimmo dal nostro gruppo, andammo dalla polizia per le nostre dichiarazioni in merito agli ultimi attimi in cui ti avevamo sentito e poi in una cappella dove c’era la tua salma.

La mia testa è ancora fuori dal locale in cui avevo già ritirato il premio per quel cortometraggio che ormai sembrava solo l'anteprima del tuo addio, ci sei tu in quella casa che per te era diventata quiete e prigione.
C'è la chiamata di mia madre che in affanno tenta di trovare le parole giuste per darmi la notizia dell'accaduto, ci sono i singhiozzi di tua madre che mi rimbombano nel cervello, le tue mani che immagino ancora su di me, ma di cui ho dimenticato la consistenza e il calore.
Ti baciato per l’ultima volta quel giorno, stretto le tue mani ormai fredde per ore, prima che ti chiudessero in quella lunga bara bianca.
Ho camminato da sola dietro al feretro, allontanando la mia famiglia, Nic, tutti.
Era un momento che dovevo vivere da sola, uno degli ultimi solo io e te.

«Ti conosco?»

«Non penso, ma possiamo rimediare.»

Era iniziata così la nostra conoscenza.
In modo diretto, a tratti brusco.
Io che facevo la preziosa, tu che mi riportavi con i piedi per terra.
Il primo anno di liceo lo abbiamo divorato in classi diverse, il secondo, per un bello scherzo del destino ci siamo ritrovati seduti allo stesso banco, l'ultimo.
Il tempo sembra essermi scivolato dalle mani.
Se avessi immaginato di perderti così presto, mi sarei innamorata di te in quella presentazione non convenzionale, ma vera, come siamo sempre stati noi.
E ancora adesso mi chiedo se riuscirò mai ad usare i verbi al passato, quando racconterò di te.

Sono già due anni che le giornate hanno un ritmo lento e scomodo, io studio cinema alla Sapienza, ma non ho ancora dato un esame.
Ho perso contatti con la tua famiglia, perché mi addossano gran parte della colpa della tua morte.
Ho perso i contatti con tutti i nostri amici in comune, perché mi ricordano ciò che ho perso.

Mio padre mi aveva proposto la possibilità di rifarmi una vita altrove, dimenticare tutto, reinventarmi.
Ho rifiutato e ho guardato in faccia il dolore, ho permesso che mi squarciasse il cuore quando mi sembrava di sentirti chiamare il mio nome.
Quando attraverso i vicoli o le piazze in cui ci appartavamo, in cui progettavamo di vivere dei nostri sogni.
Percorro quella che tu avevi predetto sarebbe stato il mio futuro, ma non racimolo successi, temporeggio, mentre provo a lasciarti andare.

Guido discretamente, non ho ancora avuto incidenti e il ché non è scontato per le strade di Roma, forse questo potrebbe renderti orgoglioso.
Ho la mia piccola indipendenza, lavorando quando posso in un pub di un'amica di vecchia data di mio padre.
Vado quando ha più bisogno, così non mi sento vincolata, ma riesco a racimolare qualche euro che mi permette di non fare la mantenuta.
Sai bene quanto ho sempre detestato l'idea di incarnare quel genere di ragazza.
Ho vent'anni, gli occhi del mondo sulle spalle, un bagaglio di paure e desideri, una visione distorta di ciò che vorrei.
Qualcuno che invece, sembra essersi preso ciò che gli spetta è Niccolò.
Ha aperto i concerti di mio padre, e quello è stato l'ultimo favore che mi ha chiesto.
So poco di quello che succede nella sua vita, ha cambiato casa, senza avvisare.
La sera prima suonava al bar di Trastevere a cui non ho mai accettato di sentirlo cantare, l'attimo dopo era applaudito da centinaia di persone all'Ariston.
È l'idolo delle masse, ma ha ancora una tremenda paura di morire.
La tua morte ha cambiato tutti Dino.
E se per certi versi, per quanto mi riguarda, mi ha reso immune all'amore, ad altri li ha spinti ad amarsi ancora di più.
Fabiola è diventata la musa di Niccolò, e ha abbandonato il sogno di fare l'attrice.
Indossa qualche capo che le mandano quelle inutili aziende su instagram, fa delle foto indossandoli, ed il gioco è fatto.
Fa l'influenzer insomma, vale a dire che è una nulla facente che vive di luce riflessa, anche se né lei né Nic, lo ammetteranno mai.
Fabiola è sobria, come un bicchiere di acqua minerale e inutile, come un raffreddore estivo.

Le avvisaglie che non fossero legate da un'amicizia profonda, erano visibili a chiunque.
Uscivano insieme solo in compagnia di amici in comune, non possedevano il numero di cellulare l'una dell'altra.
Erano due poli opposti che sembravano essere capitati per coincidenza nello stesso giro.
Si dilungava sempre, quando si trattava di elencare tutto ciò che detestava di Fabiola, mentre sembrava evitare di raccontare di Niccolò.
Alyssa strappò quella lettera, e fece finta che quell'ora passata a scrivere non fosse mai esistita.
Riprese uno dei suoi costosi libri e tentò di imparare a memoria l'argomento del prossimo esame, nella speranza di presentarsi, questa volta.
I primi giorni di primavera le donavano buon umore, l'aria a Roma era diversa da quella che respirava quando Dino era ancora vivo, eppure non ci pensò.
Si soffermò ad osservare i primi fiori che sbucavano fuori dai vicoli, quando era già ora di pranzo e attraversava con calma la strada per rientrare a casa.
Alyssa viveva da sola da qualche mese, anche lei in una zona più centrale di Roma, poco distante dalla villa di suo padre.
In molti le chiedevano se fosse la famosa Alyssa a cui Fabrizio Moro aveva dedicato "Portami via", e lei a volte acconsentiva, altre faceva finta di non capire quella domanda.
Quella canzone era la sua debolezza, suo padre era la sua debolezza.
Pensava che non avrebbe mai amato nessuno quanto lui, poi aveva imparato a prendersi cura di Dino e il destino glielo aveva sottratto.
Sentiva che mantenendosi distante dalle persone, le avrebbe impedito di  amarle.
E anche lei, non si amava più.

Racconterò di Te { con Ultimo}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora