Farina

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Capitolo 12

Da mesi non riuscivamo a sfondare le linee Austriache per colpa del filo spinato, ogni volta che qualcuno riusciva ad avvicinarsi infatti, veniva raggiunto da una scarica di colpi di mitragliatrice prima che potesse riuscire a tagliarlo via. L’indomani di quella sera, ci trovammo schierati nelle trincee, pronti a saltar fuori e proprio non vedevamo come sarebbe potuta andare diversamente dal solito. “Attacchiamo alle  9 giusto?” “credo di si, ma dipende da quanto ci mette la compagnia della morte” questi erano i discorsi che un caporale e un maresciallo facevano poco distante da me. Avevo già sentito parlare di queste compagnie della morte, spesso erano lodate dagli ufficiali superiori, dicevano che fossero chiamate così perché grazie a loro, veniva cosparsa la morte tra le linee nemiche. Totalmente diversa invece la versione delle truppe, che affermavano che il nome era dovuto al fatto che ogni volta che i soldati di quelle compagnie uscivano, non rientravano. Tuttavia, al momento, capire perché si chiamassero così non era il mio problema principale. Entrarono in scena dei soldati, coperti da delle corazze pesantissime, che si posizionarono davanti al cancello d’uscita dalla trincea, non avevano ne’ fucili, ne’ pistole in mano, solo delle cesoie. “Soldati” esordì il generale di brigata “Queste, sono le famigerate corazze Farina. Impenetrabili anche ai proiettili, grazie alla loro composizione d’acciaio spessissimo. Grazie a queste e ai soldati che le portano, apriremo un varco, nel filo spinato nemico e voi, con un’unica carica, riuscirete a sfondare le linee nemiche e a vincere la guerra. Gli antichi romani vincevano grazie alle corazze, e anche noi quest’oggi, grazie alle corazze Farina, vinceremo contro i barbari Austriaci!” detto questo, guardò l’orologio da taschino e disse “Aprite”, venne aperto il cancelletto e i soldati uscirono. Camminarono per diversi metri, senza che gli Austriaci aprissero il fuoco. Superarono le nostre linee di filo spinato e si incamminarono attraverso la terra di nessuno. Eravamo tutti col fiato sospeso e ci chiedevamo, se avrebbe funzionato. Intanto, dall’altra parte, gli Austriaci sembravano spiazzati da questo avanzamento visto che ancora non si sentiva neanche un colpo. Gli uomini, avanzavano sotto il peso delle corazze, non so cos’avrei fatto per capire cosa pensassero o anche solo per vedere la loro espressione, coperta dai pesanti elmetti. Continuarono ad avvicinarsi indisturbati alle trincee Austriache. Arrivarono prima a cento, poi a novanta metri dalle linee di filo e nulla, silenzio. Si avvicinarono ancora un poco e non appena uno di loro, aprì la pinza per tagliare il filo, partì la prima raffica dalle linee Austriache. Contai otto raffiche e non uno di quei dieci uomini si salvò, e il filo spinato era ancora li. “Generale, cosa facciamo?” chiese il colonnello al generale di brigata, forse sperando che annullasse l’attacco. “Attacchiamo lo stesso. Alle  9:00 fate suonare la carica. I bersaglieri guideranno l’assalto”. Erano le 9 meno un minuto, come al solito c’era qualcuno che stava male “vomitate ora se dovete” consigliavano i comandanti di squadra. Suonò la carica. I bersaglieri uscirono fuori mentre altri bersaglieri con le trombe intonavano le note della carica, uno dei brani usati da questo reparto nelle cariche. Dopo i bersaglieri uscirono varie squadre. Tra le ultime ad uscire ci fu la mia. Mi ritrovai sbalzato sul campo appena fuori la trincea dovetti correre a testa bassa perché i colpi arrivavano serrati. Saltai dentro la prima buca che mi capitò davanti, mentre i miei compagni morivano intorno. Sentivo i colpi arrivare tutti intorno a me e ogni metro che avanzavo diventavano sempre più serrati. Le trombe suonavano ancora quasi coperte dal suono degli spari. All’improvviso, mentre correvo, un colpo di mortaio esplode in una buca a pochi metri da me sbalzandomi in un’altra buca a fianco. Ero a terra, non capivo se mi ero ferito, appena riaperti gli occhi, vedevo solo tanta confusione e l’unica cosa che sentivo era un forte fischio in entrambe le orecchie. Vidi arrivare un soldato, vedevo che cercava di dirmi qualcosa, ma non riuscivo a capirlo. Dopo qualche secondo, finalmente riesco di nuovo a sentire qualcosa “Stai bene?! Dobbiamo toglierci da qui oppure” non finisce la frase che un colpo gli trapassa l’elmetto uccidendolo sul colpo. Mi alzai e corsi alla copertura che veniva subito dopo. Più avanti intanto i bersaglieri erano stati tutti uccisi dalle mitragliatrici austriache e ora anche i soldati della brigata Brescia. All’improvviso, gli spari cessarono. Gli Austriaci avevano smesso di sparare, e ora anche noi. Dopo qualche secondo di silenzio, un Austriaco uscì la testa dalla trincea e gridò “Italiani! Tornate indietro! Non fatevi uccidere così!”. Rimanemmo tutti fermi, senza sapere cosa fare. Nessuno osava sparare nonostante i soldati Austriaci si fossero esposti facendoci segno di rientrare nelle trincee e mostrando i fucili come segno che non avrebbero sparato. Mentre cercavamo di capire cosa fare, ci sentimmo sparare contro. Sparavano dalle nostre trincee il generale, di fianco alla mitragliatrice che aveva aperto il fuoco gridava “forza soldati! Avanzate! Per il re! Savoia! Avanzate! O ordinerò una rappresaglia!”. Mentre parlava, un soldato del nostro plotone si alzò e cominciò a correre verso la trincea austriaca, fu subito chiaro che voleva disertare. Mentre gli austriaci facevano segno al soldato di correre più svelto la mitragliatrice aprì nuovamente il fuoco uccidendolo, per poi tornare a sparare contro di noi. Qualcuno così, forse per paura, forse perché non aveva più nulla da perdere, sparò contro gli austriaci e lo scontro riprese. Appena sotto i fili spinati mi trovai accanto ad un soldato della compagnia della morte, sia la corazza che l’elmetto ormai avevano più buchi che un colabrodo e il sangue usciva da ognuno di questi. Avevo capito perché si chiamassero “compagnie della morte” . si continuò per diverso tempo a combattere, finchè non fu ordinata la ritirata. Troppi dei nostri morirono quel giorno molti dei quali, impigliati nel filo spinato sotto il fuoco delle mitragliatrici.Mentre tornavo indietro lanciai un’occhiata alla trincea Austriaca dalla quale non partivano più colpi, vidi degli uomini, stanchi quanto noi di quella guerra, stanchi di uccidere e stanchi di veder morire i propri compagni, i quali sembravano gli unici per cui la guerra avesse una fine. Una volta in trincea, cercai subito Andrea e Giuseppe. Trovai subito Giuseppe che venne verso di me chiedendomi come stessi. “Io sto bene! tu come stai?” gli chiesi “io sto bene! dov’è Andrea?” mi rispose lui “speravo che lo sapessi tu!” dissi io. Cercai Andrea come un disperato, non riuscivo a trovarlo, mi ero quasi rassegnato al peggio, quando finalmente, lo vidi, era sulla barella dei portaferiti, aveva la spalla e la gamba che gli sanguinavano ma per lo meno era vivo.

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