Capitolo 18
Correvamo a perdifiato mentre alle nostre spalle le esplosioni e gli spari risuonavano costanti. Non passò molto perché vedessimo un plotone in marcia verso di noi, agitando le braccia riuscimmo a farci notare, una volta avvicinati, riconoscemmo il tenente Giandolfo che ci venne incontro con grande sollecitudine. Spiegammo con grande foga quella che era la situazione. "Dobbiamo aiutarli" queste furono le parole con cui esordì Giandolfo. Era pienamente consapevole di cosa significava, stava chiedendo ai suoi uomini di mettere a repentaglio la propria vita, per l'ennesima volta, e questa volta con una minima possibilità di sopravvivere, ma d'altronde, se nessuno avesse coperto la ritirata degli uomini al fronte, di certo non sarebbero sopravvissuti. Mettere a rischio 50 uomini per salvarne quanti? 100? 200? O forse 10 o anche meno? Era una decisione difficile, e aveva poco tempo per prenderla. Tutti gli uomini lo guardavano, mentre le esplosioni si facevano sempre più vicine aveva 25 anni, la metà di quante persone aveva sotto la sua responsabilità. Alla fine fece l'unica cosa che poteva fare. Prese un foglio di carta, scrisse qualcosa, poi si posizionò sul lato del plotone schierato, e chiese a tutti di girarsi verso di lui, io ed Andrea eravamo ancora fuori dalla formazione e restammo fermi dove eravamo. "Signori, date le circostanze, le compagnie al fronte hanno bisogno di copertura nella ritirata, anche un singolo uomo può fare la differenza per aiutarli ad uscirne vivi da quella situazione. Sappiamo tutti che molti di noi non ne uscirebbero vivi. Ho qui un mio ordine, che dice a chiunque di voi non se la senta, di rientrare a Caporetto e mettersi a disposizione della compagnia, devo solo inserire i nomi, così che quando arriverete non sarete fucilati, ovviamente io mi recherò al fronte a dare, se qualcuno di vuoi vuole venire, sarò felice di combattere ancora al vostro fianco, per gli altri non abbiano vergogna di tirarsi indietro". Calò il silenzio, gli spari e le esplosioni erano diventate un sottofondo quasi ignorabile. Avevo da tempo capito che era diverso rispetto agli altri ufficiali, ma non mi sarei aspettato mai una cosa del genere, o forse si? Nel silenzio più totale una mano tremante si alzò, "Comandi signor tenente" e lui rispose "certo, ti segno subito" "no", lo interruppe la stessa voce, "io vengo con lei". A queste parole Giandolfo rimase sconvolto, e lo rimase ancora di più quando ad una ad una le mani si alzarono accompagnate da "anche io", qualcuno aggiungeva "al fronte c'è mio fratello" o "non mi tiro indietro" alla fine si girò verso di noi e disse "tornate a Caporetto e dite…" non lo lasciai finite di Parlare "mi perdoni la poca formalità, ma non ho detto di non voler venire.”
Mentre marciavamo, nessuno parlava, ogni sparo aumentava la tensione che ci portavamo dentro. Non ci volle molto per arrivare a Saga, il borgo, che fino al giorno prima era adibito a postazione di retrovia, era stato spazzato dall’artiglieria nella notte. Incrociammo un plotone che arrivava dal fronte, i volti di quegli uomini si illuminarono quando ci videro, per poi spegnersi subito quando si resero conto che eravamo solo 50. “Un solo plotone? dove sono tutti gli altri?” “chiese il comandante del plotone di Alpini. Giandolfo lo gardò, si girò verso di noi e poi rivolse nuovamente lo sguardo al tenente Alpino dicendo “Al momento è tutto quello che abbiamo”. Il tenente alpino rimase per qualche secondo in silenzio, “Bene, quali sarebbero gli ordini?” chiese, “Di dare ausilio agli uomini al fronte nel respingimento dell’avanzata nemica per dare il tempo al battaglione di organizzare una controffensiva” Rispose Giandolfo. “E mandano solo un plotone?!” Il tenente alpino si infuriò, “Non hanno nemmeno la minima idea di che cosa c’è laggiù”. Giandolfo non sapeva cosa dire, tuttavia restava poco tempo, il tenente Alpino illustrò la situazione al tenente Giandolfo, mentre arrivavamo, gli Austriaci avevano preso Plezzo e a breve sarebbero arrivati anche a Saga, l’unica possibilità di successo che avevamo era trincerarci in quello che restava del borgo e coprire la ritirata degli ultimi uomini al fronte. Così facemmo, eravamo meno di 100 soldati e ci distribuimmo per le rovine del borgo. Io ed Andrea, con un alpino, ci posizionammo tra le rovine di quella che probabilmente prima era una chiesa, cercando copertura alla meno peggio. Mi posizionai dietro quello che probabilmente prima era un muro esterno, era abbastanza spesso da fermare le pallottole calibro 8 tedesche, o almeno così speravo. Dopo aver caricato il fucile controllai un’ultima volta che tutto fosse apposto, mentre rovistavo nelle tasche per approntare tutte le piastrine di cartucce, uscì una cartolina, mi fermai un attimo ad osservarla, era una delle lettere di Maria era scritta su una cartolina con un’immagine di Riesi vista dal monte Veronica, spesso la portavo lassù, Era l’unico punto che permetteva di vedere il paese nella sua quasi totalità, ancora una volta, guardando quell’immagine mi venne da pensare a tutti i miei affetti e se mai sarei riuscito a riavere indietro la mia vita, Forse no, dopo quegli orrori, nulla sarebbe più stato come prima. I miei pensieri furono interrotti da un urlo “Arrivano”, quella singola parola mi riportò a quello che stavo vivendo. misi via la cartolina e incamerai la prima cartuccia nel fucile, appoggiai la canna in una fessura nel muro davanti a me e tirai un profondo respiro. Vedevo gli austriaci ed i tedeschi scendere per le pendici del monte che avevamo di fronte, era difficile distinguerli, ma poco importava, erano tantissimi, più di quanti ne avessi mai visto fino ad allora e noi non eravamo rimasti nemmeno in 100. Un gruppo di soldati italiani precedeva correndo la nube di nemici, qualcuno veniva colpito e non riusciva a raggiungerci, qualche altro fortuato si gettava dietro qualche riparo. In pochissimo tempo i colpi cominciarono a sfrecciare, passavo da un bersagli all’altro, costringevo il mio occhio a traguardare i congegni di mira ma la concitazione era troppa. Attorno a me tanti venivano colpiti, non avremo retto più di tanto. Ad un certo punto un proiettile colpì la parte superiore del mio elmetto, rimbalzandovi sopra, dovevo cambiare posizione o il prossimo mi avrebbe ucciso “Andrea, mi sposto”, avvisai, Andrea mi fece segno di muovermi, Lui era in postazione non molto lontano da me con la mitragliatrice FIAT-Revelli, mi spostai verso l’alpino che era riparato dietro un ammasso di detriti abbastanza grande da proteggerci tutti e due, appena fui in posizione mi girai per fare segno ad Andrea di raggiungerci, ma feci solo in tempo a vedere una bomba di mortaio che si abbatteva proprio di fianco a lui. In quel momento il tempo si fermò, avevo appena visto morire la persona che praticamente dall’inizio mi aveva accompagnato in quell’incubo, un minuto prima c’era ed un attimo dopo era morto e pensandoci, se non mi fossi mosso, probabilmente sarei morto con lui. Mi accorsi che l’alpino mi stava tenendo, inconsultamente ero scattato verso Andrea, rischiando di farmi ammazzare. “Non puoi fare niente amico, mi dispiace, dobbiamo andarcene” mi gridò l’alpino, guardai Giandolfo, faceva segno di andare via, l’offensiva era troppo potente, restare significava morire. Mentre andavo via lanciai un ultimo sgugardo a ciò che restava del corpo senza vita di Andrea, speravo di essermi sbagliato, o magari di vedere qualche segno di vita, niente, gli occhi sbarrati ed il sangue che usciva copiosamente dagli arti mutilati lasciavano poco spazio all’immaginazione. Sempre restando coperti ci ritirammo verso il fiume, qualcuno saltò nel fiume e venne raggiunto dai proiettili Austro-tedeschi, qualche altro fortunato riuscì a fuggire.
Non appena fummo al sicuro Giandolfo corse da me, aveva l’uniforme ditrutta, e non aveva più l’elmetto, “Angelo, stai bene?” Vidi con lui Giuseppe, eravamo rimasti una qunidicina tra il nostro plotone e quello di Alpini. “Dov’è Andrea?”, provai a parlare, a capii che se lo avessi fatto sarei scoppiato a piangere, così mi limitai ad un cenno. L’espressione del Tenente diventò ancora più cupa di come non fosse già, ma non disse nulla, probabilmente perchè non voleva che gli altri superstiti pensassero che Andrea fosse più importante degli altri compagni. Giuseppe crollò sulle ginocchia. “Dobbiamo muoverci” disse Giandolfo e così ripartimmo alla volta del comando.
STAI LEGGENDO
Il Salso Mormorò
Ficção HistóricaÉ il 1915. Angelo Lo Giudice, un ragazzo di 24 anni originario di Riesi, un paesino sulle sponde del fiume Salso, in provincia di Caltanissetta, si ritrova a dover partire come militare per il primo conflitto mondiale. Si ritroverà a dover combatter...