Colpevoli di essere vivi

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Capitolo 13

La sera dopo quella terribile mattinata, mi trovavo nel dormitorio. Avendo dormito fuori la notte precedente toccava a me infatti stare al coperto quella sera. Mi sietemai nel primo letto libero che trovai e mi ci accasciai sopra. L’indomani mattina, fui svegliato da delle grida. Mi affacciai alla finestra di fianco al mio letto e vidi un uomo che veniva portato da qualche parte con le mani legate. Nel frattempo anche gli altri si erano svegliati e si affacciarono alla finestra. “Vi prego! Vi prego! No! Non ho fatto niente! Non ho fatto niente! Non voglio morire” gridava l’uomo in manette dimenandosi mentre i carabinieri lo tenevano per i gomiti. Raggiunto un muro di roccia, lo legarono ad un palo con le spalle al muro, mentre il plotone si schierò davanti a lui. Non appena i carabinieri si furono spostati il sergente esordì “plotone, attenti! prima riga, un passo avanti. prima riga, in ginocchio. seconda riga, un passo avanti. Plotone, armi in mano, caricare, puntare, Fuoco!.” Il frastuono dei fucili riecheggiò per tutta la valle e l’uomo smise di muoversi. Mentre portavano via il corpo senza vita del soldato, entrò Giuseppe, che durante la notte era stato di guardia. “guardate l’esecuzione? Pover’uomo.” esordì “cos’è successo?” chiese un soldato. “Erano usciti per un’azione con le pinze. Lui, il Tenente Marchetti e un altro soldato. Appena sono arrivati la sotto, gli austriaci hanno cominciato a sparare, gli altri due sono morti, lui è riuscito a scappare.” disse Giuseppe. “e quindi?” chiese un ragazzo poco distante da me “E quindi lo hanno ammazzato per codardia di fronte al nemico.” rispose Giuseppe. “La vogliamo vincere così la guerra? O vogliamo rendere più facile il lavoro al nemico, ammazzandoci tra di noi” Commentò qualcuno, dando vita ad uno scambio di opinioni tutte concordi concordo sul fatto che la guerra stesse prendendo una piega sempre più disumana. La mattinata continuò tranquilla, in quella tranquillità a cui ormai eravamo abituati, la paura delle armi nemiche non ci abbandonava mai e anche quando riuscivamo a liberarcene, in un modo o nell’altro, succedeva qualcosa che ce ne ricordava. Era quasi ora di pranzo, e io e Giuseppe stavamo combattendo la noia giocando a scacchi sotto una feritoia nella zona alta della trincea. Il freddo cominciava a diventare sempre più forte con l’avvicinarsi dell’inverno vero e proprio. Mentre giocavamo, vidi un albero sulla sommità della collina di fronte, le foglie erano tutte rosse e molte erano cadute. “cosa guardi?” chiese Giuseppe incuriosito dal mio sguardo. “niente, solo un albero” risposi io. “sicuro? mi sembravi abbastanza pensieroso” rispose a sua volta Giuseppe. “beh, stavo guardando le foglie attaccate ai rami, precarie, da un momento all’altro un colpo di vento potrebbe arrivare e spazzarle via, e pure loro restano attaccate, non lasciano la presa. Proprio come noi, attaccati alla vita con uno spago”. Giuseppe rimase qualche secondo a guardare l’albero, poi disse “Cavolo amico! sei proprio bravo con le parole! Mi hai fatto venire un brivido lungo tutta la schiena! ti dispiace se me la segno questa?” disse prendendo il taccuino. “no, fa’ pure, sei tu il poeta qui.” risposi io serenamente

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