Punto e da capo

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Capitolo 15

"Grazie ragazzi" esclamò il tenente visibilmente scosso e senza sapere cosa aggiungere. Subito dopo l'esplosione intanto era partita la carica che dalle nostre trincee si stava riversando sul punto dell'esplosione. "Tornare indietro sarebbe un suicidio" esclamò Giuseppe. "E nessuno ci assicura che quel pazzo non ci fa fucilare se lo facciamo" rispose il tenente. "Restiamo e combattiamo" conclusi io. Nessuno confermò, ma la foga del momento ci portò a fare qualcosa che nei primi periodi della guerra non avremmo mai fatto. Tra la paura di una raffica alle spalle e quella per un mancato mantenimento della parola da parte del Maggiore, restammo la, dietro la collinetta. Le raffiche ci passavano radenti sopra la testa, e mentre i nostri commilitoni avanzavano, noi cercavamo di sparare alle mitragliatrici senza farci vedere, sfruttando il favore della notte. Per coprire le fiammate dei fucili, utilizzammo le giacche dei militari morti che c'erano nelle fosse limitrofe e la cosa, nonostante facesse perdere precisione all' arma, funzionava. Mentre le trombe suonavano la carica e gli italiani avanzavano nel fango della terra di nessuno, un razzo luminoso si alzò nel cielo illuminando tutta la zona. Per quei pochi secondi di luce, vidi quanto era orribile la scena, soldati che cadevano a terra morti, il suono incessante delle mitragliatrici, bombe di mortaio che squarciavano persone che conoscevi. Ma qualcosa era diverso ormai, qualcosa era cambiato in me dall'inizio della guerra, e solo in quel momento me ne accorsi. Ero così abituato a convivere con la paura, la tristezza, lo sconforto, che ormai non ci facevo più caso. Quando il resto del battaglione arrivò alla nostra altezza, si cominciò a salire il pendio che portava alla trincea acversaria. Avendo potuto aprire solo un buco nel filo però, era facile tenere sotto tiro quell'area. Molti ragazzi morirono nel tentativo. Mentre sparavo un colpo di mitragliatrice, mi arrivò così vicino da farmi sobbalzare per lo spavento, scivolai e caddi di fianco ad uno dei corpi a cui avevamo preso le giacche, mi accorsi con le prime luci della luna che attaccata al cinturone aveva una granata da fucile, allungai lo sguardo e nel buio intravidi un fucile come il mio ma dotato di tromboncino lanciagranate. Non sapevo da quanto tempo era li quel fucile, ne' avevo mai usato un affare del genere, l'unica cosa che sapevo era che se non avessi fatto quello che stavo per fare, sarebbero morti troppi ragazzi quella sera. Afferrai il fucile, presi l'unica granata al cinturone del soldato morto e la innestai nel tromboncino. Ripresi la posizione che avevo prima di scivolare, puntai contro la mitragliatrice e feci fuoco. Tutto mi sembrò fermarsi. Vidi la palla di fuoco alzarsi dalla postazione, qualche corpo che usciva dalla trincea sbalzato dall'esplosione e i miei commilitoni che entravano nella trincea pochi istanti dopo. Non sapevo se quella notte avevo avuto fortuna o era stato il Signore a proteggermi, ma ero li e non mi ero mai sentito così. Finito l'assalto, avevamo conquistato la trincea austro-ungarica, gli ufficiali superiori la vantavano come una vittoria enorme, ma chi l'aveva vissuta sapeva cosa era costata, sapeva quante perdite c'erano state i mesi prima e sapeva che tanto, una volta affacciati dall'altra parte ce ne sarebbe stata un'altra appena 200 metri più in là e quindi, come ogni volta ci si ritrovava di nuovo al punto di partenza con assalti, ritirate, morti e feriti.

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