Capitolo 5

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«Ci penserò, ok?» Avery slargò le braccia, la sua ostinazione aveva trovato rinuncia giusto ora alfine di una snervante sollecitudine.

Joanne voleva fosse lei a incaricarsi di tenere i contatti con le agenzie di catering, a trattare con loro in fatto di cibo. Era convinta avesse un futuro da cuoca o più precisamente da pasticcera, da quando aveva assaggiato i suoi piatti e i suoi dolci e l'avevano fatta innamorare, non poteva più farne a meno. Non solo, le aveva incessantemente ripetuto di prendere in considerazione l'idea di partecipare a dei corsi di cucina e per pasticceri, facendosi promettere che ci avrebbe pensato o Katie sarebbe divenuta la sua di segretaria, perché tanto, il potere e l'autorità di farlo, lo aveva.

Un ricatto vero e proprio, e Avery non sapeva cosa la facesse arrabbiare di più: il fatto che fosse stata raggirata, indotta e costretta a sobbarcarsi un pensiero in testa di questo calibro, che avesse utilizzato la mora zuccherosa o che Joanne avesse preteso addirittura che lo garantisse. Quando tempo era trascorso dall'ultima volta in cui aveva fatto una promessa? Come ad esempio quella volta in cui aveva assicurato con tutta sé stessa al datore di lavoro che non avrebbe avuto il tic nervoso a l'occhio e non avrebbe dato di matto perché il venerdì sera il cocktail bar si era riempito di liceali insopportabili e il collega l'aveva piantata in asso senza avvisarla, così era stata lei a doversene occupare, da sola.

Aveva fallito miseramente, per essere chiari, terminando col non riuscire a evitare di aprire bocca e dire tutto quello che pensava. Proprio tutto, anche se a detta di molti era rude e inappropriata. Certo non aveva perso il lavoro e Devon non aveva perso clienti, aveva solo ricevuto una marea di recensioni negative e anonime riguardo la barista e cameriera dai capelli scuri che secondo loro non stava realmente seguendo la sua vocazione.

«Puoi smetterla adesso di stressarmi con questa storia? E pure di saltellare. Quanti anni hai, sei?»

«Quarantanove, se ci tieni a saperlo. E li porto benissimo.»

Avery roteò gli occhi e spostò il peso del suo corpo lontano dal muro dell'ufficio. L'intera stanza era a pianta aperta, colma di finestre, dal corridoio d'ingresso esiguo alle due zone giorno; una attrezzata con un mobile e la tivù e separata dall'altra da due asettiche pareti alte fino al soffitto e l'altra era semplicemente dedicata all'accoglienza degli ospiti, decorata da deliziosi e moderni divani componibili con un tavolinetto in vetro al centro. Seguiva un enorme tavola nera, con un set di almeno dieci sedie e sul fondo, un'altra parete divisoria aperta ai lati, nella quale c'era l'ufficio e la libreria a muro.

Nella parte destra si trovava la cucina, con questa bizzarra finestra sulla parete di tutta la lunghezza della stanza, a un metro dal parquet e che permetteva di vedere al di sopra del bancone su cui Joanne aveva ai lati posizionato due vasi stracolmi di fiori. Era possibile chiuderla tramite un pannello dello stesso colore dei muri, ovvero il bianco, per impedire agli odori tipici della cucina di impregnare le altre stanze o le superfici. L'accesso era a destra, subito dopo l'ingresso e attraverso una porta, nello stesso corridoio delle camere da letto che possedevano un bagno privato ciascuno.

Erano tornate a casa molto tardi, ma questo non le aveva tolto la voglia di mettersi ai fornelli e preparare un cena velocissima e sfiziosa con omelette, un classico della cucina francese. La preparazione della versione base fu pronta in meno di un minuto, benché dovesse ripeterla. Avery ruppe le uova, aggiunse un pizzico di sale, pepe e del parmigiano, nella padella sul fuoco sciolse qualche grammo di burro e quando iniziò a sfrigolare, rovesciò dentro il liquido. La arricchì a piacere, con quel che la fantasia le suggerì in quel momento e che aveva a disposizione in frigorifero. Nella sua mise i cubetti di prosciutto cotto e il prezzemolo mentre in quella di Joanne lo speck a listerelle, i funghi saltati e la rucola fresca.

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