Capitolo 10

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Un'emozione non identificabile le vietava di muoversi, aveva congelato i suoi arti e bloccato l'ossigeno in gola. Avery era immobilizzata, ma non osò voltarsi, o per scagionarla da termini inopportuni mal utilizzati, non riuscì a darle prematuramente la sua attenzione. Vero era che l'aveva aiutata quando avrebbe potuto avere guai in un locale, sola e ubriaca, senza possibilità di badare a sé stessa; in un bar colmo di uomini alticci e non, a molti dei quali non sarebbe importata la sua incapacità di intendere, volere e rendere possibile dare il suo consenso poiché, come aveva imparato nella vita a sue spese, gli uomini che commettevano determinati soprusi lo facevano anzitutto per imporre il loro potere; il loro dominio maschile usato per ricordare qualcosa che si erano premurati di mantenere nella struttura sociale odierna dall'alba dei tempi, ricevendo l'appoggio implicito degli altri maschi quando rifiutavano di riconoscere il problema e puntare il dito contro i loro simili o forse perché, se fossero stati al loro posto, probabilmente avrebbero fatto a quelle donne la stessa cosa.

Non era pentita di averla assistita nel momento del bisogno, ciò però non significava che avesse dimenticato che Katie l'avesse cordialmente paragonata a due persone, che molto poco avevano a che vedere con il modo in cui era fatta Avery Miller. Vissute nell'agio, provenienti da ambienti facoltosi, tendenzialmente perfide di natura o se volevamo, o dovevamo essere oneste; avevano interiorizzato una così deprecabile misoginia e non quella generica di repulsione e avversione che trovavamo scritta nei vocabolari, che non era l'equivalente di quella provata o esercitata da un qualsiasi uomo ma che, tuttavia, nel renderla internalizzata, trasferirla nella coscienza, assorbirla in un'esperienza, proprio, aveva creato indubbiamente la sua magagna alle donne che ne sorbivano gli effetti, passive o attive.

La necessità impellente di far competizione o ricercare il cosiddetto sguardo maschile, l'approvazione taciuta, non era forse una prova della tesi di Avery? Il solo obiettivo della vita di Rebecca e Valerie, a quanto aveva appreso per esperienza personale e buona osservazione di certe maniere, pareva essere quello di sfoggiare nuovi stili d'abbigliamento e, soprattutto, quello che gli altri avrebbero pensato di loro.

Katie, tuttavia, a gambe incrociate sul materasso e con un cuscino sul grembo nell'atto di giocarvi nervosamente, iniziò a parlare e contemporaneamente gli occhi le diventarono lucidi. Poco le importava la maleducazione nell'essere rimasta di schiena, benché preferisse essere etichettata in questi termini, piuttosto che far scoprire il reale motivo alla ragazza dietro di lei, per il quale fosse rimasta immobile come una statua: non sapeva cosa fare.

«Ti chiedo scusa e lo so che in questo momento vorresti soltanto che io uscissi comprensibilmente da casa tua, ma ti chiedo per favore di lasciarmi parlare. Ti chiedo scusa per aver detto che potresti essere stata tu ad aver provato ad allontanarmi da coloro che credevo mie amiche; mi sono pentita un secondo dopo aver pronunciato quelle parole. Mi sento una stupida, lo sono sempre a dire la verità, ogni volta che mi capitano cose del genere ed è successo tante volte, credimi, purtroppo. Non sono capace di prevederlo, di capirlo, mai, non ho intuizione, puoi dirlo: sono una sciocca credulona che, nella vita, ha sempre lasciato che le persone la mettessero in ombra; la facessero sentire in difetto e le dicessero come, secondo loro, avrebbe potuto essere migliore. E ho sbagliato anche con te, com'era ovvio accadesse. Mai provato un senso di colpa così grande come quando ho realizzato di non aver gestito la cosa, perché non so farlo e che stavo per perdere una vera amica.»

Qui Avery, incurvabile come un tronco intirizzito dal freddo nella stagione invernale, riuscì a girarsi verso di lei con espressione allarmata, contrariata, denti stretti e lingua pulsante. La richiamò, addirittura, cercando di fermarla o puntualizzare o fare qualche battuta nel suo stile, ma Katie proseguì con la voce strozzata e la testa china nel tentativo di nascondere le lacrime.

«Kat...»

«Qualcuno come te, il mio opposto, che nonostante ciò che ha passato e benché credo sia unicamente una parte, è la persona più forte che io conosca; che, anche se con modi e parole burberi, mi ha aiutata ad uscire dal mio guscio, ad affrontare con maggiore sicurezza il mondo e le persone di cui ho sempre temuto il giudizio e, di cui, mi sono sempre fatta prendere in giro in un modo o nell'altro. Con te non è successo. Tu mi spingi verso i miei limiti e oltre, sei parecchio complicata, d'accordo, ma avevi ragione quando hai detto di aver visto una persona intenta a compiacere gli altri. La verità è che essere me stessa mi ha creato qualche dilemma in passato, che mi ha segnato profondamente e d'allora, pur andando contro i miei principi, ho detto e fatto cose col solo fine di non restare di nuovo sola, di non essere quella emarginata, quella strana. Ma in più di un mese, Avery Miller, la scorbutica nuova arrivata in ufficio, beh, per me, si è rivelata più vera qualunque interazione sociale che ho avuto con lei, che con chiunque altro nella vita! Quindi ti chiedo scusa e, se non vorrai più vedermi e avere a che fare con me, io lo capirò, ma sappi che mi dispiace, non penso quello di cui ti ho accusata ingiustamente e ti sono grata per quello che hai fatto per me, iniziando dal parlarmi con tanta onestà ieri.»

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