Me e l'altra Me.

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Prendiamo un treno.
È un treno a caso partito dalla stazione principale della nostra città. Siamo soli ma in compagnia. Abbiamo una reflex al collo, la voglia di immortalare dettagli e bellezze; la voglia di fare tanti, tantissimi passi, con le All star logore, di quelle che di passeggiate del genere ne hanno viste tantissime.
Scendiamo ad una fermata non programmata. Vedo il mare, vedo i pini marittimi piegarsi verso quella distesa d'acqua salata.
Scatto la prima foto.
Esco dalla stazione, "lei" viene con me.
Passeggiamo verso il parco,  un posto che abbiamo sempre amato; è un parco nel quale ci siamo recate un sacco di volte, sin da quando andavamo a scuola.
Ci guardiamo e sorridiamo come solo noi capiamo.
Varco l'enorme cancello d'entrata, catapultandomi in quel paradiso verdeggiante.
Passeggio con le mani nella giacca di pelle e la macchina fotografica che ciondola contro al mio petto.
Resto in silenzio, annuendo raramente a ciò che la mia compagna dice arrovellandosi su ogni pensiero che esprime, mordendosi quasi la coda da sola come un gatto scalmanato.
Ascoltarla parlare è qualcosa di assurdo, una volta che comincia non smette più, balzando da un punto del discorso all'altro, venendomi facile perdere il filo.
Parla di tutto: parla delle persone che ci circondano, del ragazzo incrociato al pub l'altra sera, della lite con l'amico avennuta il giorno prima; parla anche del titolare che paga in ritardo, dei documenti da sistemare, della scuola mai terminata, del corso professionale perso perché ha ponderato troppo se iscriversi o meno; solleva anche un bel polverone riguardo ai suoi fallimenti personali, criticandosi da sola... Parla di qualsiasi cosa, mentre io mi sento già esausta di ascoltarla. Vorrei solo che ogni tanto tacesse, che ogni tanto mi capisse un po'  di più, che ogni tanto mi desse spazio per esporre anche un altro tipo di visione che non sia la sua. Vorrei che, ogni tanto, mi somigliasse un po'  di più.
Le voglio bene, abbiamo un bel rapporto, andiamo molto d'accordo a volte, ma è come se non fosse mai abbastanza. È egocentrica ed imponente nel suo essere riflessiva ed autocritica.
Eppure siamo qui a passeggiare insieme. Ma ho bisogno di zittirla un momento. Dovrà pur tacere ogni tanto, no?!
Scatto un'altra foto.
Uno scoiattolo in bilico su un ramo sgranocchia la sua arachide datagli dal bimbo poco distante da me. Sembro io. Anch'io sono perennemente in bilico, anche in questo momento lo sono, tra lo schivare un raggio di sole e trovare la messa a fuoco perfetta. Quello scoiattolo sembro io: mangio ciò che mi viene dato, con ingordigia; quando lo finisco ne cerco ancora, insoddisfatta, avida.
Una voce mi fa rinsavire: è di nuovo lei, mi sta intimando di proseguire.
La mia mente lavora frenetica, cercando di rispondere a quel suo discorso così vario. Mi rendo presto conto che non so come rispondere, non ne ho proprio la minima idea. Come faccio a dare delle risposte che si basano sul ragionamento degli altri? Gli altri sono una variabile fondamentale che non mi è concesso comprendere tanto da sciogliere i nodi che li riguardano. Ma, allora, perché vorrei davvero rispondere a quelle domande? Perché vorrei trovare una soluzione ad ogni costo? Perché non riesco a capire le cose non dipendano sempre da me e non me ne faccio una volta per tutte una ragione, piuttosto che arrovellarmi con caparbietà?
Le parole di colei accanto a me continuano ad assediarmi, compulsivamente. Vorrei tacesse, diamine! Basta! Da un confronto pacifico si sta trasformando in una tortura.
Dov'è il mio silenzio? Dov'è la mia noia? Dove sono io? Dov'è la mia piccola parte pacata e razionale?
Non ce la faccio più.
Mi fermo. Mi siedo nell'erba.  Ho bisogno di una sigaretta.
"Lei" mi guarda di sfuggita e poi, finalmente, tace. Volevo solo rilassarmi, volevo che questo parco mi desse tregua, alzare la bandiera bianca in segno di resa per tutte le preoccupazioni. Volevo che la mia macchina fotografica si scaricasse, invece è ancora con la batteria piena e la memoria occupata appena al 2%.
La invidio. Riesco a provare invidia per quell'oggetto meccanico ed inanimato che giace in mezzo alle mie gambe malamente piegate, anch'essa sull'erba.
Ho i gomiti poggiati alle ginocchia e la testa fra le mani. Il fumo della sigaretta, alla quale dò un tiro ogni tanto, mi riscalda le dita.
Il "suo" sguardo grava su di me, sulle mie spalle chine.
Non capisco, non capisco più dove io sia.
Non capisco come la mia mente non riesca ad essere, per una volta, piena solo al 2% come la mia reflex.
Non capisco il mio respiro affannato, non capisco i miei tremori né, tantomeno, i miei occhi lucidi e la mia tachicardia.
Semplicemente non capisco.
Questa camminata non è servita a nulla, non sono mai rimasta sola; è stato tutto così soffocante. L'unica cosa che ho capito è che ho un feticismo strano nell'alimentare la fame della mia ansia, inarrestabile, proprio di colei che ha camminato con me nelle ultime due ore. Perché non riesco a calmarla? Perché, invece che non considerarla, continuo a sfamarla?
Ho solo ricavato mille "perché" in più.
Ho ottenuto un altro blackout.
Ho riconosciuto un'altra volta la sensazione di solitudine nell'affogare nel mio male.
Ho capito che non ce la faccio a respirare da sola.
Ho fallito un'altra volta, ha vinto lei.
Mi alzo e torno a casa.

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