Louis
"Caffè, Tomlinson?"
Mi scavai un attimo nelle tasche. "Non ho moneta. Per sta volta passo" biascicai, tornando a fissare la strada chiassosa dell'ora di punta fuori dalla finestra.
Uno sbuffo divertito alle mie spalle mi fece voltare di nuovo. Stan mi guardava esasperato, la sigaretta che aveva rubato dal mio pacchetto tra le labbra, un sorriso sornione sul volto paffuto. "Era scontato che te lo stessi offrendo, tesoro."
Si avviò deciso verso la macchinetta, erta come un monumento ai caduti nel corridoio stretto e vuoto dello studio. Anche da lì, si potevano sentire gli squilli incessanti dei telefoni, le voci fredde e formali, le frasi dette e ridette, stampate a memoria ormai anche nella mia testa.
Lavoravo in quel call center da tre giorni e già pensavo di dover andare in analisi.
Dondolarsi stancamente sulla sedia girevole, tenere la cornetta attaccata all'orecchio, essere costretto ad udire milioni, miliardi di parole al giorno, miriadi di voci senza volto, era decisamente troppo stressante per Louis Tomlinson.
Ma alla fine, in quel dannato periodo della mia vita, cosa non lo era?"Hey giovani!"
Marley violò il nostro rifugio in corridoio, sgambettando sui suoi tacchi alti. Diede una pacca sul sedere a Stan, poi mi arpionò la spalla con le unghie laccate di rosso e "Muovetevi su, la pausa caffè non dura per sempre!"
"E mentre noi ci muoviamo..." sbadigliai, poggiando i gomiti sul davanzale della finestra, "tu dov'è che vai esattamente?"
La donna sogghignò, mi mostrò un foglio di carta spiegazzato. "Io stacco. Ho il permesso, ah!"
"Va a vantarti da un'altra parte" si lamentò Stan, mento affondato tra le dita e sguardo concentrato. La scelta tra caffè e latte lo stava mettendo in crisi.
Marley seguì il suo consiglio, sparendo allegra in fondo al corridoio, non prima però di averci dedicato una linguaccia per niente adeguata ai suoi trent'anni.
Tornai a fissare fuori dalla finestra, pensando a quanto odiassi la sua voce acuta e perforante, le sue battute di cattivo gusto, il suo profumo alla vaniglia troppo forte. O a quanto mi irritasse Stan con i suoi sorrisi dolci, gli occhiali sempre sporchi, quella sua inutile mania di offrire caffè.
Nessuno avrebbe dovuto sapere che il posto mi era stato praticamente regalato da Cassie, capo del nostro reparto e amica di vecchia data della cara vecchia Jay Tomlinson, ma il fatto che quei due mi si fossero attaccati al culo dalla prima volta che avevo messo piede nello studio, era la prova tangibile che Cassie non aveva tenuto la bocca chiusa.
Forse mi stavano dietro per compassione, perché era stata lei stessa a chiederlo. O magari pensavano che far sentire il pupillo del capo a proprio agio, i primi giorni, gli sarebbe valso una promozione con lode.
Quale che fosse il motivo, le loro chiacchiere inutili e il parlottare incessante, mi rendevano più nervoso che tranquillo.
O forse il nervosismo era dovuto alla marea di messaggi senza risposta sul mio telefono, alle conversazioni lasciate a metà, ai "mi dispiace" per niente sinceri, che sembravano pesarmi sul petto come macigni.
Forse tutta la mia insofferenza e la palese apatia erano causati da un viso bianco, da un sorriso sghembo, da un paio di occhi verdi che non riuscivo a scacciare dalla mente, neanche per un minuto."Quanto zucchero, Tomlinson?" trillò Stan alle mie spalle.
Meditai di lasciare la sua domanda senza risposta, solo per il fatto che il suo tono gentile mi suonava insopportabilmente irritante, quando un'altra voce, più profonda, roca, decisamente sexy, rispose al posto mio.
"Lui il caffè lo beve amaro."
Mi voltai così velocemente che per un momento temetti di cadere dalla finestra.
Harry avanzava nel corridoio stretto, le pupille scintillanti coperte dagli occhiali neri; la maglietta fina dello stesso colore, a lasciare intravedere le clavicole e il petto liscio, da bambino; le solite converse sbrindellate ai piedi, due cartoni di caffè in mano.
Stan lo fissò come se avesse appena visto un angelo e "Tu saresti...?" chiese schietto, deglutendo appena.
"Mio cugino."
La mia voce rimbombò nello spazio angusto, dura come il marmo. Harry non ci badò. Continuò a sorridere, mi porse il caffè poi strinse la mano a Stan e "Ma tu puoi chiamarmi Harry" precisò. "Non mi va di essere etichettato come il cugino di Loulou, ti pare?"
Stan ridacchiò, presentandosi a sua volta, per poi passarsi una mano sulla fronte imperlata di sudore.
Mi venne allora in mente un terzo motivo per cui lui si stesse dando la pena di starmi attaccato al culo. Magari voleva farselo, il mio culo. Ma adesso che aveva conosciuto Harry Styles, non ci avrebbe messo troppo a dimenticarsi di me.
Attaccò subito bottone, infatti.
E adesso l'angelo -Harry-, "Sono davvero orari da schifo, in effetti" stava annuendo, commentando chissà quale cazzata detta dall'altro, con i ricci a balzare leggeri sulla fronte. "Io non credo ce la farei a sopportarli." Strinse la cannuccia tra le labbra carnose, rossissime, succhiò appena.
Non so se fu per il modo inquietante con cui Stan fissò quelle labbra, ipnotizzato, o per il brivido che mi percorse la schiena, nell'osservare quel gesto che "Harry" lo richiamai, "perché sei qui?"
"Non mi andava di fare Inglese" si sollevò gli occhiali, scoprendo le iridi verdi, limpide e acquose. "E... speravo avessi un po' di tempo per me."
Lo disse in un sussurro, basso e sensuale, solo io potei udirlo.
Mi morsi le labbra, corroso da un desiderio devastante. Di baciarlo o schiaffeggiarlo, ancora non lo sapevo.