Harry

"Finito il giro?"
"Devo passare solo gli antidolorifici al paziente della 21."
"Il bambino dell'incidente sulla A10?"
"Ha 17 anni Kelly!"
Il cigolio di un carrello, lo sferragliare di ruote minuscole sul pavimento, voci più vicine ma ridotte a sussurri.
"E' un miracolato. Camille, del pronto soccorso, ha detto che lui e i genitori erano più morti che vivi quando sono arrivati."
"Ora loro come stanno?"
"Non stanno."
Improvviso bruciore al braccio destro, una puntura minuscola all'interno del gomito.
"Nel senso, il padre verrà operato, ma ha un trauma cranico abbastanza esteso. E la madre beh..."
Il bip incessante dei monitor mise a tacere la voce. Continuava a crescere, insieme al battito di un cuore. Il mio cuore.
Il pizzicore al braccio aumentò. Prudeva, prudeva tantissimo. Decisi di alleviare il dolore ma quando tentai di sollevarla, la mano non si mosse. Strinsi i denti, provai ancora, ancora e ancora. Il massimo che riuscii a fare, fu portarmela sul petto.
Mugolai frustrato, inspirai profondamente, ma il fiato mi restò intrappolato in gola, il respiro si trasformò in un gorgoglio, a contatto con la maschera dell'ossigeno.
"Sarebbe meglio chiamare il dottor Hoover, credo si stia svegliando."

"Svegliati, Harry."
Mia madre mi parlò all'orecchio.
"Tutto quello che devi fare, adesso, è svegliarti."


Spalancai gli occhi.
Ero in un ospedale, ma non a Londra. La schiena mi doleva, le gambe, che avevo raccolto al petto per sdraiarmi sulle panche in corridoio, anche. Non avevo però le costole fratturate e la gamba rotta. Non ero io il paziente e i miei genitori non erano in terapia intensiva, ma sotto tre metri di terra nel cimitero di Holmes Chapel.

"Ah, sei sveglio."
Sollevai lo sguardo e i miei occhi, pesti di sonno, incontrarono quelli stanchi e sottili di Louis. Mi sollevai di scatto. Non ricordavo di essermi addormentato sulle sue cosce.
Guardai il cielo fuori dalla finestra.
"Che ore sono?"
"Quasi le undici. Tra un po' dovrebbe iniziare l'orario delle visite."
Annuii, accasciandomi contro il muro.
Di fronte a me, Trisha e Jay parlottavano animatamente. In fondo al corridoio, Liam Payne, ancora in smoking, prendeva l'ennesimo caffè alla macchinetta. Affacciato alla finestra lì accanto il suo ragazzo, Zayn Malik, fumava, ignorando deliberatamente il divieto appeso proprio sopra la sua testa.
Le undici.
Mi stiracchiai, facendo ben attenzione a non incontrare lo sguardo di nessuno, men che meno quello del ragazzo sedutomi accanto.
Sono già le undici.

Delle circa dieci ore passate in quel corridoio, tra il clangore delle porte, lo scorrere delle barelle e l'odore incolore dei medicinali, non avrei saputo dire quale fosse stata la peggiore.
Forse quella dell'arrivo, quando avevo trascinato Niall semisvenuto fino al pronto soccorso, per poi essere spinto su un lettuccio mentre lui veniva portato via. Sopravvissuto all'assalto degli infermieri e a mille domande rimaste senza risposta, dopo due corse in bagno per vomitare, ero riuscito a chiamare Louis.
L'ora dopo era stata più tranquilla o forse così mi sembrava, perché non la ricordavo. Ero però sicuro di aver pianto, di aver percorso almeno un centinaio di volte il corridoio di fronte al reparto, di essere crollato addormentato per non più di qualche minuto. Così come ero sicuro di sapere chi fosse stato ad asciugare le mie lacrime con le sue carezze, chi avesse calmato il mio via vai con la sua voce, chi avesse insistito perché dormissi un po' tra le sue braccia. E forse questo avrei preferito non ricordarlo.
Così come avrei preferito non ricordare il momento in cui Zayn era arrivato, il modo in cui aveva percorso il corridoio a passo di carica, lo sguardo di puro odio che mi aveva rivolto, prima di aggredirmi.
Non avevo reagito. Ero rimasto immobile alla mercé dei suoi pugni furiosi, della voce folle simile al ringhio di un animale ferito, degli occhi di brace più scuri della notte.
Non volevo difendermi. Lui aveva ragione ed io torto. Lui aveva diritto di farmi a pezzi ed io lo meritavo.
Peccato che Liam Payne e Louis Tomlinson, insieme con il personale del reparto, la pensassero diversamente.
"ZAY!" Liam lo aveva arpionato alla vita, dopo che il primo pugno era giunto a destinazione. "Zay, smettila o chiameranno la sicurezza."
"Lo ammazzo" il latrato di Zayn aveva costretto gli infermieri ad avvicinarsi. "Giuro che sta volta lo ammazzo."
Sarebbe riuscito a farlo sul serio, se Louis non mi avesse strattonato per il braccio, sottraendomi alle sue grinfie.
"Va a farti un giro, Styles" mi aveva ordinato lapidario, prima di scacciare malamente Liam e avvolgere in un abbraccio la belva inferocita che mi urlava contro. Zayn si era divincolato, aveva lottato con furia e determinata ostinazione, finché Louis non era riuscito a domarlo. Insieme erano scesi giù per le scale.
Le ore successive ero stato costretto a passarle con Liam Payne e forse erano state quelle le peggiori, perché lui mi aveva consolato.
In realtà non aveva fatto molto, se non sedermi accanto e rimanere per tutto il tempo in silenzio. Ma gli sguardi intermittenti che mi aveva lanciato erano carichi di rammarico, i gesti con cui mi aveva offerto il caffè e coperto con la sua giacca, pieni di compassione.
La stessa compassione che, tanti mesi prima, l'aveva portato ad offrirmi una sua maglietta dopo aver macchiato la mia di caffè, il motivo principale per cui quel primo giorno l'avevo odiato.
Quando finalmente gli altri erano tornati, Trisha era con loro. Parlava al telefono ed era accompagnata da un uomo in camice bianco. Non mi aveva rivolto neanche uno sguardo, prima di entrare in reparto.
Poi c'era stata l'attesa, dilatata dal silenzio, inasprita dall'ansia. Seduti su quella panca, per la prima volta dopo secoli tutti e quattro insieme, avevamo aspettato. Che cosa, esattamente, non lo sapevamo.
La porta si era aperta alla luce del sole nascente, Trisha era uscita ma a noi non avevano permesso di entrare.
Jay era arrivata alle otto, anche lei come Liam, tutta contrita e compassionevole. Ero uscito per la prima volta in sei ore per non doverle parlare.
E mentre tossicchiavo con il drum in bocca e i capelli sugli occhi, nel parcheggio dell'ospedale, lui era arrivato.
A pensarci bene, niente avrebbe potuto coronare meglio quella nottata orrenda, se non la comparsa di Tomlinson senior.
"Come sta?" aveva chiesto, accendendosi una sigaretta.
"Meglio di ieri, dicono."
"Avresti preferito esserci tu lì dentro al suo posto, vero?"
"Avrei preferito qualsiasi cosa avesse potuto impedirmi di parlare con te."
Aveva riso, mi aveva offerto l'accendino. "Mi odi davvero così tanto?"
"Sicuramente più di quanto tu odi me."
Aveva scosso la testa divertito per poi "Ah, il piccolo Horan!" esclamare, ignorando la mia risposta. "E' sempre stato una mina vagante. Sapevo che prima o poi sarebbe esploso anche senza l'aiuto di suo padre."
Lo avevo guardato disgustato. "Non hai il diritto di giudicare. Non è stata colpa sua."
"Oh lo so di chi è la colpa" un ghigno carico di sottintesi malcelati era comparso sul suo volto. "E lo sai bene anche tu, Harry."
"Se non sei qui per Niall, allora faresti meglio ad andare" avevo grugnito, voltandogli le spalle. Non potevo contrastare il suo attacco. Non quel giorno, non in quel momento, quando mi ritrovavo a malapena ad avere la forza per lottare con quello che avevo scagliato contro me stesso.
Ma sapevo che lui non si sarebbe lasciato sfuggire quell'occasione tanto propizia.
Infatti "Sono qui per qualcosa di più importante di un adolescente sbronzo" aveva sbottato sferzante, "si tratta di un certo biglietto..."
"Se solo Lou sapesse che me l'hai offerto..."
"Ma tu non gliel'hai detto."
"No. Perché l'ho strappato insieme all'assegno."
"Non ci credo" aveva sorriso, la sua mano si era poggiata sulla mia spalla. "Faresti meglio ad usarlo entro due giorni. Perché se rimani qui, ti assicuro che finiresti con l'aggiungere alla morte dei tuoi e al ricovero del tuo amico, un altro motivo per cui sentirti in colpa."

yrralWhere stories live. Discover now