Chapter 28 - Elena Peduzzi

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Si è chiesta parecchie volte se sarebbe stata la scelta giusta, ma ora che si trova a bordo della jeep, con i capelli appena intessuti di fili d'argento mossi dall'aria e il viso pallido illuminato dalla luce glaciale della luna, sa che è l'unica possibile. Per lei.

Starsene rinchiusa in quello squallido edificio con le altre donne non era più un'opzione. Al diavolo il virus! Deve reagire. E non soltanto per se stessa. In fondo, è una ricercatrice, una scienziata. Il suo posto è tra le ricerche, in prima linea là dove pochi possono arrivare e dove però tutto può iniziare. In un laboratorio. Ma non uno qualunque di quelli che sono sorti come funghi velenosi un po' dappertutto.

Per questo è diretta ad Oudeschild. Ed è tutto merito di Ivan... quel ragazzo è puro istinto, irriverente e selvatico con quei suoi occhi da lupo, luminosi e beffardi. Tale e quale a sua madre.

Ripensa a Olga, alla sua genialità mai compresa nelle aule universitarie. Sempre un passo avanti a tutti, persino a lei a volte.

Chiude gli occhi un istante e, folgorante come un lampo, le compare l'immagine del corpo di Olga, straziato dalla malattia. Un virus creato in laboratorio, sfuggito alla gabbia di vetro, era entrato nella sua amica e l'aveva divorata, in poche settimane. Ma Olga non se n'era andata e basta.

Le aveva lasciato un dono.

Gli occhi della scienziata si spalancano di colpo. Sono velati di lacrime, ora.

Non potrai avere figli.

Era stata la sentenza del luminare, in quell'odioso giorno che mai dimenticherà. Era quasi Natale. Da allora il suo cuore di madre mancata si era chiuso e aveva giurato a se stessa che non avrebbe mai più pianto.

Ma poi era arrivato il dono di Olga. Ovociti, perfetti, che aveva conservato in modo impeccabile. Era sempre previdente Olga. Se tutti fossero come lei, ora il Virus non avrebbe ridotto il mondo a una discarica di corpi senza identità.

Ogni volta che ripensa a ciò che ha fatto allora, una fitta di pentimento la divora. Non sa perché. Ad Abraham non è mai importato nulla dei gemelli. Lui non voleva avere figli. Glielo aveva detto chiaramente quando l'aveva scelta. Se solo avesse saputo che lei non poteva averne... Poi, quando erano arrivati gli ovociti di Olga, non ci aveva pensato un istante e si era occupata lei stessa di tutto. Nessuno avrebbe mai dovuto sapere la verità. Poco dopo era incinta e felice. Abraham si era chiuso in un silenzio glaciale. Lavorava e basta. Ma a lei non importava. Fino al parto.

Poi aveva guardato quei due neonati e aveva capito che non sarebbero mai stati davvero suoi. Erano una parte di lei, ma non lo erano. Non in profondità. Lei non sarebbe mai stata una brava madre per loro, non come lo era Olga con il suo Ivan. Li amava, ma ciò che aveva creato erano due orfani. Ecco perché decise che avrebbe insegnato loro a non aver bisogno di nessuno.

Quando il piccolo Dan le porgeva la manina e lei non ricambiava, anzi, lo spronava a cavarsela da solo, per lei era difficile, un miscuglio di fitte, ma col tempo si era convinta che fosse giusto così. E il giorno che Nadia, disperata, era entrata nel suo studio con la gonna macchiata di sangue mestruale, lei non aveva nemmeno sollevato la testa dal computer.

«Da oggi soffrirai ogni mese» le aveva detto.

Non era rassicurante, come madre, ma i gemelli erano cresciuti forti e indipendenti. L'avevano odiata e disprezzata, certo, eppure erano forti.

Specie Nadia, lei è decisamente forte. Perfino più del fratello. Nient'altro ha importanza per lei, ora. Sopravvivere non è per tutti, lo sa bene.

Quei pensieri le accorciano il suo viaggio. Stringe gli occhi. È arrivata a destinazione.

Una sagoma alta e magra si stacca da un angolo buio ed entra nello spettro luminoso dei fari della sua jeep. Lei frena e spegne il motore.

Punta le luci e osserva il volto di Ivan, il suo sguardo vigile ma tranquillo. Quell'espressione che preannuncia una battuta, magari stupida, da un momento all'altro, ma che non perde mai di vista nulla.

Spegne la jeep. Piombano nel buio.

«Ti ha seguita nessuno?» chiede il ragazzo.

«No» risponde lei. «Meglio far sparire la macchina comunque.»

Indica il mare nero e denso come petrolio.

«Peccato. Con tutti i ferri vecchi che ci sono in giro. Questa carretta cammina bene» osserva Ivan dispiaciuto. «Potremmo nasconderla in quel capanno abbandonato. Stacco la batteria e due cavi, così nessuno potrà usarla.»

«E se qualcuno del laboratorio la vedesse?»

Ivan le lancia un'occhiata perplessa. «In qualche modo dovevi pur arrivare dato che non sei attraccata al porto più vicino, no?»

«Per ora non si deve sapere che sono qui.»

«Il laboratorio è sicuro, te l'ho già detto. Cosa temi?»

«Infiltrati» gli risponde alzando il mento. «Del Cerchio o dalle altre fazioni. Prima di iniziare le nuove ricerche, dobbiamo assicurarci che nessuno possa metterci le mani, in ogni modo possibile...»

«Pensi a dei traditori tra noi?»

«Non possiamo permetterci errori, Ivan. Se il cerchio scopre che sono qui, o se lo scoprono altri, è finita. Ci lasceranno perfezionare la Cura, magari, poi se la prenderanno. Ci uccideranno e ci daranno in pasto ai pesci.»

«Che cosa hai in mente?»

«Tieni gli occhi ben aperti e riferiscimi ogni cosa. Sarai i miei occhi e le mie orecchie. Io starò nascosta mentre procedi con le prime batterie di test sui campioni.»

Il ragazzo annuisce.

Quindi insieme spingono la jeep verso la vecchia banchina mangiata dalle onde. Sono pochi metri e l'auto si inabissa.

Poi Ivan fa strada qualche passo più avanti verso un vecchio telo da pesca che lui scosta. Sotto sbuca una botola.

Lei gli prende un braccio. «Grazie. Mi ricordi molto tua madre... il modo in cui mi hai dato le coordinate di questo posto... c'è il suo genio in te.»

La sua voce è dura ma è più di quanto ormai lei è disposta a mostrare, di sé.

«Chiunque saprebbe creare un generatore di impulsi elettromagnetici con una vecchia lattina di Coca Cola e la batteria di una telecamera salvata dalla discarica» ribatte Ivan divertito.

«E ha funzionato alla perfezione. Così come funzionerà questo posto, dopo che ci sarò passata io» disse lei fissando la botola.

«Troverai la cura, vero?» le chiede Ivan.

«Troveremo, Ivan. Tu mi aiuterai.»

«Io, Nadia e gli altri» precisa lui.

Lei si blocca nel sentire il nome di sua figlia e Ivan se ne accorge.

«Non vuoi dire nemmeno a lei che sei qui?»

«Non per il momento, no.»

«È una tosta» aggiunge il ragazzo con un guizzo nello sguardo.

Lei sente una fitta, fortissima, allo stomaco.

Ivan e Nadia. Insieme. Non dovrà mai essere.

«Vero, è come me. Non ha cuore» risponde decisa.

Lei è l'unica colpevole di quel tremendo casino.

«Se lo dici tu, sarà così» risponde Ivan con un mezzo sorriso.

Forse non ha preso sul serio le sue parole. Comunque lavorerà con lui, notte e giorno, e non lo perderà mai di vista.

La verità non si dovrà mai sapere.

Mai.

«Andiamo?» le chiede allora Ivan.

Lei prende un grande respiro guardando la luna, un'ultima volta.

Poi entra nella botola.

Sa che da lì uscirà soltanto con una pallottola in testa o con la Cura.

Oppure con entrambe. 

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