35-ERIN

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Il furgone su cui mi trovavo rallentò progressivamente fino a fermarsi; forse eravamo arrivati a destinazione, ma dove?
Dove mi aveva portato colui che mi aveva rapito?
Chi era che mi aveva preso?

<Torno fra cinque minuti> mi informò  chiudendosi la portiera alle spalle. Fermarsi però non era stata una buona idea perché ora avrei rimesso tutto quello che avevo ingerito. Il mal di testa poi non mi dava tregua come se un martello pneumatico mi stesse perforando le tempie. Inoltre iniziavo ad avere fame e questa sensazione si sarebbe accentuata qualora il viaggio si sarebbe protratto.
Dove eravamo?
Da quanto tempo ero lì dentro?
Che ore erano adesso?
Per come era stata tortuosa la strada, potevo dire con certezza che mi trovavo fuori Chicago, verso l'interno dello stato, ma solo se ci fossimo fermati e mi avesse tolto, la benda avrei potuto notare un qualche particolare che mi avrebbe permesso di capire indicativamente dove mi trovavo.
<Ma che cazzo, ti sei vomitata quasi addosso!> esclamò quando aprì il retro del furgone; sì probabilmente mi ero sporcata i pantaloni o la maglia, ma quello che mi colpì di più fu ciò che l'uomo disse fra i denti “dovevo ricordarmelo”. Quindi mi conosceva. <Fra poco saremo arrivati, evita di sporcare ancora di più> annuii incapace di parlare.
Il mal di testa peggiorava di momento in momento e lo stesso valeva per il senso di fame.

<Posso avere dell'acqua e qualcosa da mangiare?> sussurrai, ma lui non rispose. Anzi richiuse la porta e si preparò a ripartire.

Ehi piccoletti se mi sentite, sappiate che la mamma farà di tutto pur di proteggervi; vi ama. Il papà, come anche Hank, invece sono sicura che ci starà già cercando e smuoverà mari e monti pur di trovarci. Noi dobbiamo solo resistere un po' di tempo anche senza cibo o acqua. Ci state? Bene.

Ci fermammo di nuovo; questa volta in modo definitivo.
Quanto tempo era passato dalla sosta?
Non scesi subito perché passò qualche istante, ma non appena successe vomitai ancora sul rapitore, che imprecò, e poi sentii le gambe cedere.
Attraversai un lungo corridoio, o almeno così lo percepivo io, per poi essere scaraventata sul pavimento. <Marina toglile la benda e puliscila. Elizabeth vieni con me> ordinò per chiudere la porta a chiave.

Non ero sola e questo mi rincuorava un po', ma perché ero finita qui?
Dove mi trovavo?

Lentamente misi a fuoco la stanza e le persone che vi erano dentro; potevo contare una ventina di ragazze tutte con i capelli color biondo scuro, occhi verdi e alte circa 1,60 m. La mia esatta fotocopia.
Raggelai.
Passai rapidamente in rassegna anche lo stanzone in cui ero stata gettata dentro come un sacco e capii di trovarmi dentro ad un capannone; forse una fabbrica abbandonata o una fattoria, difficile da dirsi senza finestre.
Poi mi soffermai sulla figura della ragazza di fronte a me che mi stava aiutando ad alzarmi da terra per condurmi ad una sorta di bagno. Era unico per tutte ed era separato dal resto solo da un divisorio in plastica; sul lato sinistro si trovava un piccolo water e un rubinetto che doveva fungere da lavandino.
Vomitai ancora una volta, questa volta però dentro il water grazie all'aiuto di Marina.

<Ehi stai bene?> annuii distrattamente non completamente connessa con la realtà per via della ferita alla testa <Hai una brutta ferita in testa, te la medico e poi sei come nuova> provò a scherzare senza successo. Sentii il bruciore causato dall'alcol tamponare sulla ferita e poi immaginai che mettesse un cerotto, ma non lo fece perché disse che l'uomo non gliela aveva dati.
Mi riaccompagnò dalle altre e mi fece distendere su quella che, da ora fino all'arrivo della mia squadra, sarebbe stata il mio letto e mi porse un vassoio con delle uova e un bicchiere di latte.
Notai che tutte le altre ragazze avevano con sé un vassoio identico al mio per cui immaginai che fosse la colazione e di conseguenza non doveva essere proprio tardi.

<Ti presento le altre> annunciò Marina che tra tutte sembrava quella più tranquilla e più aperta ai nuovi arrivi. In quel momento non riuscii a memorizzare nessun nome, anzi dovetti far appello a tutta la buona forza di volontà che possedevo per non vomitare ancora.

<Da quanto tempo siete qui? Dove l'ha portata?> le domandai. Alla prima domanda disse che non sapeva rispondere, alla seconda spiegò che a turno tutte loro erano state violentate e che Elizabeth, oggi, era la prima del turno. Ne faceva cinque al giorno, ma io non fui scelta e fu in quel momento che ne presi coscienza.
Erano tutte così simili a me perché chiunque mi avesse rapito aveva una fissa morbosa nei miei confronti e tra esse, io, sarei stata l'unica che non sarebbe stata violentata.
Chiunque mi avesse rapito, voleva me.
<Da dove venite?> chiesi a tutte per cercare di capire dove ci trovassimo. Alcune di loro erano originarie di Peoria, altre di Rockford, altre di Galesburg e infine altre ancora di Chicago, una soltanto da Decatur <Anche io sono di Chicago; lavoro in polizia e sono sicura che a breve la mia squadra ci verrà a salvare>

<Non fraintendermi ma finché non li vedo, non ci credo. Da quando sono qui nessuno è venuto a controllare, nessuno ci ha cercate.> sembrò sul punto di piangere <Siamo sempre state noi e lui con la sua scaletta; ogni giorno devi solo sperare che sia il turno di una tua compagna, perché quello che lui fa dentro quella stanza è indescrivibile> concluse Bethany, se non sbagliavo

<Avete idea di come si chiami?> annuirono tutte contemporaneamente

<Stanley> proseguì Marina.
E a quel punto tutto divenne nero.

If I Told You that I Love YouDove le storie prendono vita. Scoprilo ora