30-JAY

119 4 0
                                    

La cena non era andata poi così male; Hank mi aveva solo tirato un pugno e ignorato per tutta la sera, ma rispetto alle aspettative era niente. Letteralmente niente.
Però Erin era preoccupata per l'occhio e intuii che per farle passare questa agitazione dovevo rassicurarla. Non a parole, non sarebbero servite, ma a fatti. E così fu.

La mattina dopo aver accompagnato Jessie a scuola, nonostante non volesse andare, ci recammo al distretto dove però, se inizialmente mi allontanai volontariamente dalla mia ragazza per andare a trovare zio Carl, dopo fui separato da Erin perché il sergente voleva parlarmi urgentemente.
<Sergente> affermai chiudendo la porta del suo ufficio

<Jay, siediti> rispose facendo segno con la mano di accomodarmi sulla sedia davanti a sé <Il tuo occhio come sta?> stavo per rispondere ma non feci in tempo <L'unità Vittime Speciali di New York ha bisogno di una persona qualificata che prenda il posto di un loro collega durante la convalescenza. Conosco il Comandante Olivia Benson e mi ha assicurato che l'incarico non durerà oltre tre mesi; io ho lasciato il tuo nome. Parti stasera alle sette, Olivia ha pensato a trovarti un appartamento e entrerai in servizio domani mattina. Ora va' a casa, prepara le valigie e saluta i colleghi> rimasi esterrefatto. Non potevo crederci, aveva escogitato tutto ciò per non farmi stare vicino a Erin. Era incredibile.

<Con tutto il rispetto signore, ma non mi sembra il momento più adatto... Sa ora che Erin è incinta, non vorrei lasciarla sola...> risposi sperando di fargli cambiare idea.

<Non è sola. Ha me, Camille, Justin, Caroline e suo fratello> rispose fermo andando ad aprire la porta del suo ufficio. Mi aveva deliberatamente escluso e questo mi lasciò ancora più perplesso; il pugno di ieri sera non era bastato e ciò sarebbe stato il prezzo da pagare per aver disobbedito alla regola più importante.
Quando mi riscossi, mi diressi negli spogliatoi e mi affrettai a togliere dall'armadietto i vestiti, le scarpe di ricambio e li riposi con ira all'interno del borsone.

In quel momento uscì dal bagno Erin che, vedendomi, si avvicinò posando un bacio sull'incavo del collo. Gli spiegai la situazione e lei come una furia si precipitò nell'ufficio del sergente dal quale uscì sbattendo la porta.
Ci recammo nel mio appartamento dove, dopo un lieve pianto causato dagli ormoni e dallo stress, facemmo l'amore prima di preparare le valigie e mi accompagnò all'aeroporto.

<Ehi, non sarà per sempre. Tre mesi passano velocemente e poi due weekend al mese tu e la piccoletta verrete da me e io verrò da voi i restanti... Ti amo cucciola. Salutami la piccoletta> la baciai sulle labbra prima di voltare le spalle diretto verso il gate d'imbarco.

<Promettimi che starai attento> mormorò afferrando un'ultima volta la mano. Annuii e le regalai un sorriso rassicurante.
Durante il volo ebbi modo di ripercorrere la conversazione avvenuta nella cella del distretto con mio zio; da come lo ricordavo era dimagrito molto e gli occhi vivaci che lo caratterizzavano erano spenti. I capelli, prima neri e ordinati, ora erano canuti, incolti e secchi; le labbra erano secche come la pelle. Indossava due giacche pesanti e consumate dal tempo con sotto una maglia, i pantaloni avevano un buco sul ginocchio destro e le scarpe erano sciupate. Le mani erano coperte da dei guanti e indossava infine un cappello di pile pesante.
Zio mi raccontò di non essere mai uscito da Chicago in questi anni, di aver frequentato i quartieri più malfamati della città ma, grazie a questa sua situazione, di aver conosciuto persone fantastiche.
Avrei voluto rispondergli che io lo avevo cercato, invano, per circa quattordici anni, però non fui in grado di rispondere e mi limitai solo ad abbracciarlo; in verità gli dissi che poteva stare nel mio appartamento oppure andare dai miei genitori, che sarebbero stati molto felici.
Rammentavo come se fosse ieri mio padre disperato per la scomparsa del fratello e potevo solamente immaginare la gioia che avrebbe provato ad averlo di nuovo “fra i piedi” o in giro per casa.

All'uscita del gate dell'aeroporto di New York trovai il sergente Olivia Benson che, dopo una stretta di mano, mi condusse al nuovo appartamento. Era piccolo ma accogliente; aveva due camere, un bagno, la cucina e il salotto erano separati solamente dalla piccola penisola. L'aspetto positivo era che il salone aveva un'ampia vetrata e che, dando ad est, la mattina avrei potuto osservare l'alba e di conseguenza la mattina dei delfini in vacanza.

<Allora Halstead, la casa dista dal distretto dieci minuti; spero che ti troverai bene e che conosceremo presto la tua famiglia> aggiunse prima di sparire dietro la porta la sergente Benson. Non riuscii a proferire parola perché come diavolo faceva a sapere che avevo una famiglia? Chi gliene aveva parlato?
Giuro che dopo ciò che Voight aveva deciso di fare, avevo molta meno stima di lui.

Da piccoletta 🤪
Potevi anche salutarmi. 😑

A piccoletta 🤪
Lo so, ma è stata una cosa improvvisata.
Sei arrabbiata?

Da piccoletta 🤪
No, però volevo un tuo saluto.
Ci tenevo. 😥
Ti posso chiamare?

A piccoletta 🤪
Certo piccoletta, così saluto te e Erin.

La mattina mi svegliai presto, feci una doccia, preparai un caffè e mi vestiti; successivamente uscii e mi recai al mio distretto.
Fui subito accolto calorosamente dai colleghi che, una volta presentati, mi sommersero di domande fino a quando non arrivò la Benson, la quale ci mise al corrente di un nuovo caso di violenza su una minorenne.

<Hai figli?> domandò Fin vedendomi leggermente sconvolto. Annuii distrattamente tastando immediatamente la tasca del pantalone con il telefono per telefonare a Erin, ma desistetti in quanto ricordai che le mie donne oggi non andavano né a scuola né al lavoro.

<Tu ne hai?> chiesi notando una foto di due ragazzi sulla scrivania. Rispose di sì e che la figlia frequentava l'ultimo anno di superiori. In quel momento il mio cellulare suonò e sul display comparve il nome di Erin.

If I Told You that I Love YouDove le storie prendono vita. Scoprilo ora