39-ERIN

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Di quelle ore dopo il pugno ricevuto, avevo ricordi molto confusi; probabilmente più avanti avrei ricordato per filo e per segno.
Marina o chi per lei aveva cercato di fermare il sangue dal naso, ma era sicuramente rotto per cui non ci era riuscita.

Avevo intuito che fuori, in una notte calda di inizio agosto, stava accadendo qualcosa; Stanley aveva violentato Bethany in meno tempo e l'aveva lasciata sul letto con l'intimo abbassato e legata alla sedia mi aveva trascinato nel bagno collegato alla camera.
Non era stato in grado di organizzare una fuga più veloce perché voleva portare con sé tutte quelle ragazze, che per lui rappresentavano un trofeo, e così era stato scoperto.
La polizia era arrivata.

<Puttana!> mi inveì contro Stanley con i pantaloni e le mutande abbassate <Sei solo una puttana!> continuò tirando uno schiaffo sulla guancia destra. Mi piegai dal dolore. <Apri quei cazzo di occhi> li avevo serrati quando avevo visto in che condizioni era; non avevo intenzione di aprirli e vedere il suo genitale all'aria. Tutto di lui mi faceva altamente ribrezzo.

<Te lo scordi> sputai per terra della saliva mista al sangue; da come imprecò capii che l'avevo colpito.

Un altro schiaffo. <Apri quegli occhi> scandì ogni parola con lentezza o forse ero io che ancora sentivo il ronzio sullo zigomo, causato dall'ultima botta.
Ormai la nausea, il mal di testa, il dolore per il naso e gli zigomi doloranti erano mischiati fra loro, non riuscivo più a distinguerli e presto mi ritrovai a vomitargli addosso.
Immaginavo già cosa mi avrebbe fatto, ero pronta, ma non sentii niente se non tre voci nitide e ben distinte che conoscevo fin troppo bene.
La porta si spalancò e Antonio, così scoprii in seguito, lo stese a terra ammanettandolo; Jay, al contrario, aveva appoggiato a terra il suo fucile e si era avvicinato a me.
<Erin, apri gli occhi. È tutto finito> sussurrò e percepii la sua voce come una carezza. Se io li aprivo lentamente, lui delicatamente tagliava i laccetti con cui ero ammanettata a questa sedia. Mi abbracciò rassicurandomi o meglio rassicurandosi. <È tutto finito amore mio, tutto> mi baciò la fronte, ma feci una smorfia di dolore.

<Portami in ospedale> mormorai improvvisamente priva di forze.

Probabilmente svenni perché quando mi risvegliai era già mattina tardi e mi trovavo su un letto di ospedale con affianco Jay ed Hank che mi stringevano rispettivamente la mano sinistra e quella destra.
Lentamente le sciolsi dalla loro presa e mi toccai il naso, la fronte, il resto del volto e la pancia; probabilmente questa era stata la prima, ma ero ancora un po' intontita. Il naso era stato sistemato, avevo un cerotto sopra il setto e due batuffoli di cotone all'interno delle narici. Sul taglio della fronte erano stati inseriti dei punti e il mal di testa era diminuito di molto. Il resto del volto era praticamente libero salvo alcune zone, soprattutto sugli zigomi, dove erano stati applicati dei cerotti o forse dei punti.
Non riuscivo a decifrarlo.
Successivamente passai ai polsi; presi un bel respiro prima di osservarli attraversati da due segni rossi, segno delle fascette troppo strette con cui ero stata legata alla sedia, e potei immaginare che la stessa situazione era presente anche sulle caviglie.
Avevo due flebo attaccate al corpo: una di liquidi e una di antidolorifico, come appresi in seguito dal dottore.

Improvvisamente mi assalì un senso di preoccupazione di vivere un sogno e così dovetti accarezzare i capelli di due dei miei uomini più importanti, che si svegliarono. Avevano gli occhi stanchi e un po' arrossati, un'espressione sollevata ma anche segnata da un grande timore.
<Piccola mia, come stai?> domandò il mio patrigno scrutandomi con risentimento; anche sullo sguardo di Jay potei notare lo stesso sentimento.
Non risposi bensì scoppiai a piangere.
Loro prontamente mi strinsero in un abbraccio e subito mi sentii più protetta; la mia coscienza fece riaffiorare il crollo emotivo che avevo avuto dopo la morte Rocky e questo mi fece stare ancora più male.

L'inserviente, che si occupava di portare il pranzo, appoggiò il vassoio sul tavolinetto di fianco all'entrata dove era stato appoggiato anche quello della colazione. Improvvisamente presero il sopravvento i morsi della fame e così chiesi al sergente se potesse portarli entrambi.
Li spazzolai.
Per colazione mi avevano portato un succo di frutta alla pesca e delle fette biscottate con la marmellata; per pranzo invece del riso con il pomodoro, una fettina di pollo con il purè di patate.
Avevamo fame, molta fame e questo significava che i miei piccolini stavano bene.
<I bambini stanno bene?> dopo attimi di silenzio, ero finalmente riuscita a dire qualcosa. I due uomini si guardarono e sorrisero; quel gesto mi scaldò il cuore.

<Fra poco passa il dottore e ti aggiornerà sul tuo stato di salute> proseguì il più anziano <Fuori c'è il resto della squadra, li faccio entrare?> disapprovai con la testa.
Non ero pronta a farmi vedere così: se avessero mostrato degli sguardi compassionevoli, non avrei retto. <Va bene, resteranno lì fuori finché non usciremo di qua> concluse distendendosi di fianco a me.
Jay era uscito dalla stanza perché, disse, doveva aggiornare Jessie a Chicago.

<Ho temuto di essere uccisa> affermai di punto in bianco rompendo il silenzio soffocante di quella stanza <Ho temuto di non rivedervi più. Era completamente impazzito; ho visto violentare sette ragazze... Dove sono?> improvvisamente mi ricordai che la sera le stava caricando nel furgone.

<Sono nelle altre stanze. Per un certo verso sono messe meglio di te> mi informò Hank stringendomi a sé delicatamente, come era solito fare i primi tempi successivi all'incidente dei miei genitori.
Jay si affacciò nella stanza chiedendo se poteva far entrare alcune delle ragazze, che mi volevano ringraziare. Acconsentii debolmente e guardai la stanza riempirsi.
Non erano alcune, erano tutte.
Osservai Elizabeth, Bethany, Marina, Margaret e tutte le altre.
Una cosa mi colpì profondamente: sorridevano.
Con un sorriso vero, non quelli di circostanza che avevo notato durante la prigionia.

<Grazie, ci hai salvato.> affermò Claire seguita da tutte le altre.
<Sei riuscita a fargli saltare tutti gli schemi, tutti i piani rischiando in primis la tua vita> proseguì Bethany, che fra tutte era risultata fin dall'inizio la più scettica, probabilmente perché era una delle “veterane”. <Crediamo che questo ti appartenga> si fece avanti Marina. In mano teneva il famoso braccialetto con il ciondolo a forma di distintivo e ricordare la menzogna che avevo raccontato, mi fece sorridere.
Me lo allacciò al polso prima di tornare al suo posto e uscire.

Un giorno, pensai, avrei raccontato la storia del braccialetto sorridendo, ma ora era ancora troppo presto. Se lo avessi fatto, avrei rivissuto tutti gli schiaffi e il pugno ricevuti.

If I Told You that I Love YouDove le storie prendono vita. Scoprilo ora