4. Scala di grigi

223 16 147
                                    

“L’inverno. Guardare dalla finestra e fare a meno di un colore alla volta fino al grigio, all’ombra, alla convinzione di essere ciechi. Come è lontana la primavera.”   - Fabrizio Caramagna

EREN

La mattina dopo, neanche a dirlo, mi svegliai con un mal di testa tremendo. Me l’ero cercata. Sapevo che sarebbe successo se avessi bevuto, ma l’avevo fatto comunque. E adesso mi sarei tenuto il mal di testa.

Armin era già uscito, mi aveva scritto un biglietto dicendomi che era a studiare con Mikasa in biblioteca e che avrei potuto raggiungerli se mi fossi svegliato prima di pranzo. Che malfidato. Erano solo le undici, non era ancora ora di pranzo. Ero tentato di raggiungerli solo per farglielo notare, ma il mio mal di testa non mi avrebbe permesso di studiare niente, avrei solo distratto i miei amici, perciò optai per dirglielo con un messaggio.

Ho un mal di testa tremendo, ci vediamo a pranzo
[11:15]

Qualcuno si è ubriacato, ieri sera?
[11:16]

Non farmici pensare
[11:16]

Spensi lo schermo e appoggiai il telefono sul comodino. Cercai tra i medicinali un qualunque antidolorifico, prendendolo immediatamente con un po’ d’acqua. Speravo facesse effetto presto. Feci anche l’errore di guardarmi allo specchio: sembravo uno zombie in coma (anche se gli zombie non possono andare in coma, naturalmente, ma la mia testa non riusciva a formulare grandi paragoni, al momento). Mi sciacquai il viso e cercai di pettinarmi i capelli in modo da non sembrare appena uscito da una centrifuga. Il risultato poteva essere peggiore, così mi decisi ad uscire: prendere un po’ d’aria mi avrebbe fatto bene.

Non avevo una meta precisa: mi limitavo a girovagare per il campus, c’erano alcuni luoghi dove non ero ancora stato e volevo vederli. Passai accanto al bar, ma pensai che non fosse proprio il posto per me al momento. Stavo camminando in uno dei viali che percorrevano il piccolo parco all’interno del campus, quando vidi qualcuno di familiare su una panchina.

Non è possibile. Quante probabilità c’erano che incontrassi proprio Levi nel mio errante girovagare? Poche, probabilmente. Ma scelsi di cogliere la palla al balzo e mi avvicinai. Aveva qualcosa poggiato sulle ginocchia e stava scrivendo qualcosa, forse stava studiando qui?

“Hey, Levi”, lui si voltò verso di me, chiudendo immediatamente un blocco di fogli che aveva in mano. Come al solito indossava le maniche lunghe, che fosse una maglia o una felpa, aveva sempre le maniche lunghe. Immaginavo le usasse per coprire quelle maledette bende.

“Eren”, mi guardò e rimase senza dire altro, aspettando, probabilmente, che fossi io a parlare per primo.

“Ecco, volevi ringraziarti per ieri sera. Scusa se non l’ho fatto prima, ma, sai… ero un po’ ubriaco, ecco”, conclusi, grattandomi la nuca.

“Di niente, non potevo passare di lì e lasciarlo fare. Poi i maiali come quello mi fanno schifo”, spiegò lui e notai un’eccessiva stizza nel modo in cui aveva pronunciato l’ultima frase. In effetti era qualcosa che riscontravo spesso quando parlava, ma stavolta era stato diverso, sembrava realmente disgustato da quel tipo. La sua voce mi riscosse dai miei pensieri.

“Vuoi sederti?”. Mi aveva chiesto di sedermi con lui?

“Non voglio disturbarti. Continua pure con quello che stavi facendo”, gli risposi con un sorriso, voltandomi per andarmene, ma lui mi fermò. I ruoli si erano invertiti, di solito ero io a dire qualcosa per non farlo andare via: sviluppo interessante.

“Resta. Non mi dai fastidio”, disse lui, aprendo il blocco di fogli che aveva sulle ginocchia. Mi sedetti e, adesso che lo vedevo da vicino, mi resi conto che era un blocco da disegno ed era aperto su un bianco e nero di un prato. Precisamente era uno zoom di tre denti di leoni proprio di fronte alla panchina dove sedevamo.

Winter WhiteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora