18. Turchese... Eren

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"L'inverno è sulla mia testa, ma la primavera eterna è nel mio cuore"
- Victor Hugo

EREN

Era passato un giorno e mezzo da quando avevamo portato Levi all'ospedale e ancora non si era svegliato. Io continuavo a fissare il suo disegno, senza volerlo avevo lasciato qualche lacrima cadere su di esso, bagnando la carta. Con tutti gli anni che avevo passato usandolo come unico ricordo che avevo di lui, il foglio si era un po' stropicciato e non era più liscio come quando Levi me lo aveva dato. Non avrei mai potuto farlo tornare com'era prima. Così come Levi: non sarebbe mai tornato quello di un tempo, quell'uomo lo aveva devastato in modi talmente profondi e orrendi che non sarei mai riuscito a riportarlo da me. La sua mente non sarebbe mai tornata a ragionare come un tempo, ma sarebbe rimasta bloccata a questo stato traumatico dal quale non riuscivo a farla uscire. Ormai mi ero rassegnato all'idea che il ragazzo che avevo conosciuto non esistesse più, che lui lo avesse portato via irreversibilmente da me. E faceva male. Perché proprio quando avevo sperato di averlo finalmente ritrovato, lo avevo perso ancora.

Non ritenevo, ovviamente, che potesse essere colpa sua. Levi aveva sempre sofferto molto, a causa di suo padre e della polizia che non faceva niente per aiutarlo.

Molti danno per scontato che ci sia qualcuno pronto a darci la sua attenzione, ad ascoltare i nostri problemi. Per alcuni è diverso, perché quando avevano più bisogno di aiuto, questo gli è stato negato.

Sapevo che Levi si era sempre sentito solo, ma con me era diverso, allora. Se prima Levi provava un terribile senso di solitudine, non potevo immaginare come si fosse sentito mentre era prigioniero di quell'uomo. Proprio nel momento più orrendo della sua vita era completamente solo, senza nessuno a poterlo aiutare.

Quell'uomo lo aveva cambiato e, adesso, non era più la persona che avevo conosciuto... temevo che il mio Levi non sarebbe mai tornato da me.

Era primo pomeriggio, quando sentii un piccolo sospiro provenire dal letto vicino a me. Mi voltai in tempo per vedere Levi aprire lentamente gli occhi, stringendoli un poco alla luce a cui non era abituato, ma le tende tirate davanti alle finestre impedivano al sole di ferirgli gli occhi.

"Ciao", lo salutai. Lui non si voltò per ricambiare, o per guardarmi. Invece, lo vidi spostare le braccia tremanti, puntandole sul letto per cercare di alzarsi, ma contraendo il volto in una smorfia di dolore.

"No, no, fermo", gli dissi, portando gentilmente le mani sulle sue spalle. A quel gesto lui si fermò subito, ricadendo sul cuscino, cercando di stringere il pugno sinistro, fallendo.

"Levi, ti fai male, fermo. Devi aspettare che le ferite guariscano", spiegai. Lui aveva la testa voltata di lato, triste, come se si sentisse in colpa.

Decisi di dargli una mano. "Ok, lascia fare a me", dissi. Sollevai la parte iniziale del letto, reclinandolo perché potesse trovarsi seduto. "Meglio?", chiesi, una volta che fui tornato sulla mia sedia. Lui, naturalmente, non mi rispose, rimanendo con la testa abbassata.

"Come ti senti?". Silenzio. Non si sentiva bene, questo era sicuro, ma volevo che mi dicesse qualcosa, qualunque cosa, per farmi capire.

"Io non pretendo di capire cosa tu stia passando... ma posso aiutarti, davvero", aggiunsi. Ancora silenzio.

Mi voltai verso il comodino alla mia destra e osservai il disegno che c'era sopra. Non sapevo se gli avrebbe fatto piacere vederlo, l'unica volta che gli avevo chiesto se volesse disegnare si era chiuso in se stesso, non avrei voluto causare di nuovo una reazione simile, ma allo stesso tempo volevo tenerlo vicino a me, perché mi aiutava a sentire il mio Levi ancora con me. Afferrai il foglio, per spostarlo, forse per guardarlo meglio, non ne ero sicuro. Ma Levi sentì il rumore della carta e si voltò per vedere cosa avessi in mano.

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