Capitolo 10 - Nostalgia

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"Siamo tornate. Eccoci".

Perdonate questa lunga assenza. Non solo le vicissitudini governative, ma anche questioni personali, (seppur niente di grave, non preoccupatevi), hanno fiaccato la nostra capacità di dare voce a questi personaggi che pure molto amiamo. Ma piano piano, un giorno dopo l'altro, una parola dopo l'altra, siamo riuscite a tornare da Mauro e Giancarlo che pazientemente ci aspettavano, come speriamo abbiate fatto voi.

Ritornate alla fine del capitolo 9, riprendiamo da lì.

Mistress&Monic

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Febbraio 2016

Deve percorrere tutto il traghetto prima di trovarlo.

È assiso sull'ultimo terrazza di prua, stagliato contro il vento, il giubbotto di pelle gonfio di aria e di spruzzi e la mascella contratta sotto gli immancabili occhiali scuri. Guarda ostinato davanti a sé e giurerebbe che sta trattenendo il respiro, come se concentrarsi con tutto sé stesso su quell'orizzonte sfumato di cielo e mare servisse a fare scorrere il tempo in modo diverso.

Mauro sorride tra sé e sé, e sospira piano guardando il suo collega, impegnato in quella lotta solitaria contro le ore che ancora li separano dall'approdo.

Brutta bestia, la nostalgia.

E Giancarlo, ne è sicuro, deve averne patita davvero tanta. Lo ha visto incupirsi giorno dopo giorno, durante le lunghe settimane del corso per accedere al ruolo da loro tanto agognato, quello di agenti di scorta, diventare sempre meno loquace, meno allegro, una piccola ruga amara piegargli l'angolo delle labbra sempre più spesso.

Sospira di nuovo, un moto di affetto a invadergli il cuore. Le motivazioni che li hanno portati fin lì non sono mai venute meno, e se anche al suo collega sono costate lacrime e sangue non lo ha mai dato a vedere, è stato sempre concentrato, deciso, inappuntabile. Hanno collezionato insieme i punteggi migliori, superato i test attitudinali, primeggiato nello studio e nelle attività pratiche. Ma Mauro aveva visto Giancarlo spegnersi dentro, un giorno dopo l'altro. La sua famiglia gli era mancata come l'aria. Non ne aveva mai parlato, non aveva mai detto nulla, ma Mauro non aveva avuto dubbi: gli era bastato sentirlo mentre parlava con loro al telefono, ascoltarne il tono di voce allegro e bisognoso al tempo stesso, gli occhi addolciti da un sentimento immenso che nessuna parola sarebbe mai stata in grado di definire.

Lo stesso bisogno che gli aveva letto dentro quando gli aveva mostrato le foto del bambino più piccolo, nato da pochi mesi: il terzo, non programmato ma accolto con gioia infinita, la stessa che gli riempiva lo sguardo  di un orgoglio e di una dolcezza senza fine e un tale desiderio di essere lontano da quella stanza fredda e anonima che gli si era spezzato il fiato.

Non avrebbe mai potuto ringraziarlo abbastanza, per ciò che aveva fatto per lui, non gli sarebbero bastate mille vite.

Aveva spesso osservato in silenzio, consapevole che a volte una parola amica può confortare ma anche rompere argini troppo faticosamente costruiti. Alcune volte aveva insistito perché lo accompagnasse allo spaccio, per una birra, e lo aveva coinvolto in discorsi senza senso, col solo scopo di fargli staccare testa e cuore da quelle immagini che scorrevano sul telefono, altre invece si era limitato a sederglisi accanto, senza dire o fare nulla, limitandosi a una sorta di offerta muta, un atto di amicizia silente, un appoggio non detto ma caldo come fuoco.

Adesso però non può lasciarlo appoggiato a quel parapetto: per raggiungere Civitavecchia ci vogliono ancora svariate ore e sta per tramontare il sole, se lo lascia lì una broncopolmonite non gliela leva nessuno. Gli si avvicina con le mani in tasca, cercando di fare più rumore possibile e lo affianca, poi appoggia anche lui i gomiti al metallo della ringhiera.

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