Capitolo quattordici

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La notte le emozioni si trasformano.

La gioia diventa illusione, la compagnia solitudine, le speranze mutano in paure.

Io mi ritrovo a fronteggiarle ogni notte, queste emozioni, a lottarci per non farmi sopraffare. La mattina ci sono i sorrisi, nel buio sento il vuoto. È una sensazione a cui non so ancora dare una vera e propria spiegazione, credo che tutto risalga al mio incidente, o al fallimento della mia precedente relazione, o all'allontanamento dalla mia famiglia. Non lo so. So solo che la mia mente dovrebbe riposarsi, invece è attiva più che mai, e mi tormenta.

Stendo la mano verso il comodino, cercando il cellulare. Accendo il display, sono le tre e un quarto. Ho la sveglia tra meno di quattro ore, ho finito le riprese verso l'una, perciò perché diamine non riesco a prendere sonno, perché questo senso di impotenza mi sopprime il petto?

Sbuffo rumorosamente, per poi cercare la galleria sul telefono. Quando il vuoto mi assale, riguardo foto vecchie, foto che mi rendono felice. Le scorro con il pollice, soffermandomi su quelle che riprendono Theo, mio nipote. Quel bambino mi manca, mi mancano i suoi occhioni vivaci, il sorriso innocente, il rapporto che potrei costruire con lui se non fosse così lontano. E mentre scorro le varie immagini con espressione nostalgica, la mia attenzione si sofferma su una in particolare, scattata ieri pomeriggio.

Un selfie, anzi il primo. Quello mio e di Hande. È una bella foto. Il riflesso del sole alle nostre spalle, le teste vicine, i sorrisi sinceri. Ero sereno in quel momento, lo noto dai miei occhi, che attraverso la fotocamera, ammiravano però i suoi.  Anche Hande sembra serena, e questa caratteristica rende la foto unica. Insieme, in qualche modo, funzioniamo, ed anche bene.

E forse, parte delle mie paure, derivano da questo. Funziona tutto troppo bene con lei. Mi diverto, gioco, riesco a confrontarmi, conosco i suoi amici. Ma quanto può durare tutto questo, per quanto tempo riuscirò a scindere la realtà della finzione? Ho il terrore di varcare quella sottile linea, ho paura di sentire.

Scuoto la testa, mettendomi dritto con la schiena. Ho bisogno di bere acqua fresca. Scendo dal letto, indosso una maglietta e un paio di scarpe da ginnastica e mi dirigo verso la hall dell'albergo, cercando una macchinetta o qualcuno che possa aiutarmi. Mentre passo per uno dei divani dell'enorme sala d'ingresso, mi accorgo di una presenza familiare.

-Başak?- chiamo la sua attenzione, e lei per poco non sobbalza dallo spavento.

-Kerem... che ci fai qui?- mi chiede, strofinandosi l'occhio. 

Mi accorgo che ha dei fogli di carta scarabocchiati sulle gambe, e una penna tra le dita. È scomodamente accovacciata verso il braccio del divanetto, accanto ad una lampada.

-Potrei farti la stessa domanda... stai scrivendo?-

Lei arrossisce violentemente, colta sul fatto, e comincia a balbettare.

-Tranquilla, non volevo metterti in imbarazzo, non c'è bisogno che tu mi dica niente- scuoto la mano, intuendo la sua improvvisa agitazione.

-Io... sto scrivendo una canzone- confessa tutto d'un fiato, come se rivelasse un terribile segreto.

-Una canzone? Sei una cantante? O una cantautrice?-

-No, no- scuote la testa lei con un sorriso, mentre io mi siedo al suo fianco -è giusto un'idea nata qui. Non dirlo a nessuno per favore-

-Non è una cosa di cui dovresti vergognarti, anzi. Ma certo, non dirò nulla-

Lei sospira, rassicurata, per poi rivolgermi uno sguardo attento.

-Tu perché sei qui? Non riesci a dormire?-

-No, cerco solo dell'acqua, ma ho visto una macchinetta poco distante da qui-  affermo con noncuranza, senza entrare troppo nel dettaglio.

Bizim kaderimiz Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora