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Le strade sono vuote pur essendo domenica e pur essendo mezzogiorno ormai inoltrato. Indosso un giubbotto leggero, simil jeans, i miei soliti Dr Martens neri, dei jeans strappati all'altezza delle ginocchia, una maglia a maniche lunghe di tessuto leggero sotto il giubbotto. C'è un venticello leggero, che smuove i miei capelli e gli alberi e la poca vegetazione circostante. Mi siedo sulla panchina dell'incontro: davanti a me, in un via vai concitato, dei passanti portano buste di pane o della spese, mamme rincorrono i figli, bambini dei palloncini che si disperdono tra il cielo e le nuvole. <Ciao> saluta Lauro, con un sussurro quasi. Mi volto di scatto: ha i capelli leggermente spettinati, una giacca di pelle, una maglia nera e dei pantaloni dello stesso colore. Ai piedi, le mie stesse scarpe. <Scusa il ritardo, mi son svegliato tardissimo, perdonami> mormora ancora, sedendosi accanto a me. Annuisco, senza parole: la delusione, la rabbia e il senso di amarezza che la notte aveva addolcito con una sorta di carezza materna al miele, è scomparsa. <Volevo parlare del nostro rapporto, di me e Lucia, sai la ragazza di ieri>. Continuo ad annuire come un'idiota, quando gli vorrei sputare addosso un fiume di parole. <Io non voglio stare a immischiarmi in cose serie, in 'ste storiette qua che poi finiscono e diventano un circolo vizioso, soprattutto con una tipa come te> dice. Io continuo ad annuire, ora senza parole, però. Mi sento la testa piena d'acqua, che soffre per cercare di capire: si sforza, sento gli ingranaggi che si muovono, ma non giunge a nulla e continua a raccattare le informazioni, ma non sa tradurle. Anzi, iniziano ad essere tradotte: son tutte scuse. La realtà mi colpisce ancora, come fa sempre quando sono troppo contenta. È come se peccassi di tracotanza e la divinità che muove tutte queste cose mi prendesse di peso e mi incatenasse per terra: sono troppo mortale, troppo effimera per stare su delle nuvole bellissime costruite da me stessa. Sento delle lacrime che bussano per uscire dai miei occhi, ma le respingo, le trattengo, chiedo al cervello collaborazione. In tutta risposta, attacca a correre il cuore: è una corsa folle, suicida, che aiuta una delle mie lacrime a sfuggire ed uscire. Abbasso la testa, mormoro un:<Non me ne sbatte un cazzo di te e lei, né di noi. Eravamo belli, anche se non so cosa fossimo. Non cercarmi più, non farti vedere>. Sparisco tra il rumore delle campane e le mie stesse lacrime.

Ti rinnamorerai a marzo./ Achille Lauro.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora