Capitolo 3

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Sono passate le 22. Link mi accompagna a casa e ci salutiamo. Non gli ho più detto niente di Aspen, del fatto che lo trovassi tremendamente bello. Alla fine, probabilmente non ci saremmo nemmeno mai visti, quindi che senso ha dirglielo?
Apro la porta di casa. Non è cambiato assolutamente nulla. Le luci sono tutte spente, ne accendo solo una per vedere dove poggiare le chiavi. Le poso sulla mensola dell'ingresso. Sto per incamminarmi verso la mia cameretta, il mio unico angolo di salvezza in quella casa. Ma qualcosa, o dovrei dire qualcuno, ostruisce il passaggio. È mio padre, che come al solito si è addormentato sul pavimento. Vorrei chiamarlo, ma finisco per scuoterlo delicatamente. Papà ha presentemente agli occhi, con la mente sta ancora dormendo. Mi guarda confuso.
"Oh no...mi sono perso il tuo concerto?"
Lo guardo confusa, poi alzo gli occhi al cielo. Di nuovo sbronzo.
"Non c'è stato nessun concerto." dico esasperata, cercando di dargli una mano per farlo alzare.
"Come no? E la band?" Chiede cercando di guardarmi negli occhi, ma non riesce nemmeno a tenerli aperti. Cerco di sostenerlo, nonostante sia decisamente pesante, e di portarlo nella camera da letto.
"Il seminario è domani, non ho ancora una band. Ora cerca di dormire e non pensare ad altro, domani devi lavorare"
Non appena arrivati davanti al letto, papà si accascia di faccia sul cuscino e si addormenta. Tiro un sospiro di sollievo e vado in camera mia. Tra le mura azzurro mare mi sento al sicuro. Lì nessuno può farmi del male, nemmeno i miei stessi pensieri.
Prima di andare a dormire, prendo il mio amato diario azzurro e dorato, con una spada storta disegnata da me. So che arrivati all'età di diciannove anni avere un diario potrebbe sembrare infantile. Quel diario mi ha salvata così tante volte. All'interno c'è di tutto: pensieri belli e brutti, i racconti che avevo in mente per dei possibili romanzi che puntualmente non metto in pratica, pagine strappate per giorni di rabbia e tristezza, altre pagine variopinte per giorni felici. Per me, avere un diario è sempre stato essenziale. Ho sempre sentito il bisogno di mettere su carta le mie emozioni. Scrivo della giornata che ho passato ad un nessuno in particolare. Dopo aver scritto tutto, sfoglio qualche pagina. La maggior parte delle pagine sono per lo più colorate, in base dalle polaroid ritraenti me e Link. Mi rendo conto di aver passato molto più tempo con lui, Trevor e Jason che con mio padre, da quando mamma ci ha abbandonati.
Quando papà era ancora se stesso, lavorava giorno e notte in studio cercando di dimostrare al mondo quanto valesse come musicista. Io ero l'unica a credere in lui, l'unica a capirlo, l'unica da apprezzare la sua musica. È colpa del resto del mondo, soprattutto della mamma, se ore è depresso alcolizzato. Mancano pochi mesi di sacrifici per raggiungere la cifra necessaria per farlo visitare da uno dei migliori analisti della nazione. Ripongo tutte le mie speranze –quelle poche rimaste- su di lei. Mi manca mio padre. Quello che vive in casa, è solo un corpo vuoto.
Provo un senso di rabbia nei suoi confronti, perché si è arreso troppo presto ed è diventato quello che è oggi. D'altro canto, però, non posso nemmeno biasimarlo. All'improvviso si è ritrovato da solo, con una ragazzina di tredici anni da crescere.
Ora fa l' impiegato incredibilmente sottopagato e sfruttato. Trevor si è offerto di aiutarmi con i fondi, ma ho rifiutato.
Cerco di raccogliere soldi in più facendo dei disegni per altre persone. Non che venga pagata chissà quanto, ma almeno questa attività ci da una mano.
Tutto questo pensare mi mette sonno. Vado a mettere il mio motto pigiama delle superchicche -definito da Huriosa come antisesso- e affondo nel piumone blu. Domani sarà una mega giornata.

Un suono assordante mi distrugge le orecchie ed è quello della sveglia.
Dopo un bel weekend, si ritorna in accademia.
Vado a fare colazione e mi vesto molto velocemente. A guardarmi, sembro proprio la classica americana collegiale: felpone universitario oversize, un paio di jeans larghi ai polpacci e un piccolo codino legato con uno scrunchie. Peccato che non sono un'americana, ma di origini italiane. Io e la mia famiglia ci siamo trasferiti in America quando avevo due anni.
Prima di iniziare le lezioni passo nel campus per salutare i miei compagni e scambiarci due chiacchiere.
"Leaf!!" Sento chiamarmi, mi guardo intorno per vedere chi è. È Simon, il coordinatore delle nostre attività. Simon è all'ultimo anno, ma è come se lavorasse con noi. Fa parte della sua preparazione per la laurea. Gli faccio cenno di raggiungermi, e lui arriva con il suo solito fare allegro. Un metro e novantacinque di fascino puro. Il vento pungente autunnale gli muove i lunghissimi capelli rosso mogano, naturalmente tinti. Che splendida visione. Ogni volta che lo vedo, mi ritrasformo in quella ragazzina di dodici anni ossessionata dai Big Time Rush.
"Sono felice di vederti! Allora, come stai? Hai passato un bel weekend?"
"Certo, tutto bene. Che mi dici di te?"
"Ho lavorato in questi giorni. Sono andato in una scuola ed insegnato a dei bambini a fare delle cose con la carta. Un inferno, in sintesi." Simon fa una risata. "Almeno questa settimana posso staccare prima dai lavori e gli studi..."
"È meraviglioso! Potresti uscire quindi?" gli chiedo.
Io e Simon siamo usciti spesso, perché tra noi si è creato un bel legame lavorando insieme per alcuni progetti. Lui annuisce, per confermare la sua presenza.
"Benissimo! Voglio farti conoscere una persona."
"Un ragazzo?"
Annuisco sorridendo, e lui batte le mani contento come un bambino. Al college, Simon è molto popolare ed è l'idolo di tutte le ragazze del primo anno. Solo che nessuno sa della sua sessualità, a parte me e qualcuno della classe.
Come biasimare quelle ragazze -e spesso anche ragazzi- che gli vanno dietro?
Ha un fisico stupendo grazie alla sua dedizione al nuoto, ed ha un carattere meraviglioso. È sempre gentile e sorridente con tutti. Era un po' di tempo che volevo presentarlo a Link, e questa sarebbe stata la volta buona per farlo.
Dopo una bella chiacchierata, Simon si mette in testa al gruppo classe e ci fa segno di seguirlo. Dovevamo lavorare ad un enorme dipinto. Tra i vari schizzi di vernice tra una pennellata all'altra, risate e schiamazzi vari, arriviamo a fine giornata che sembriamo tutti dei bambini che hanno appena finito di buttare impronte delle loro mani sui cartelloni di fine anno. Io e Dorian siamo quelli messi peggio.
"Se ci vedesse il professore, ci ucciderebbe" dice Dorian, tentando di ripulirsi.
"Sta tranquillo. Simon ci coprirà come fa sempre"
dico, dandogli una pacca sulla schiena. Dorian mi sorride e abbasso lo sguardo imbarazzata.
"Sai, mi ritornano in mente le lezioni in laboratorio del liceo" dice ridacchiando.
Io e Dorian eravamo compagni di classe al liceo.
Avevo un'enorme cotta per lui prima di incontrare Huriosa. Anzi...potrei dire di essere stata innamorata.
In un certo senso, è stato lui il mio vero primo amore. Non ho mai potuto dirgli ciò che provavo, perché avevo una con corrente che gli stava appiccicata tutto il giorno: Jo. Lei fu la mia più grande amica a scuola, ma anche la mia più grande rivale. Solo che lei non lo sapeva. E mai lo saprà.
Non ho mai trovato un solo momento in cui potevo stare da sola con lui. E questa cosa, mi ha perseguitata fino al college. Ora non provo più nulla per Dorian, ma ho sempre avuto il desiderio di conoscerlo più a fondo. Non ho il tempo di rispondere, perché Jo è lì, davanti alla porta.
"Allora? Non vieni?" Dice seccata rivolgendosi a Dorian. Lui si alza e mette le cose nello zaino.
"Scusa Leaf. Ci vediamo domani!" Dice, andandosene velocemente dall'aula.
"A domani." Dico, facendo poi un sospiro.
E pensare che non hai mai saputo della mia cotta per te, e mai lo saprai.

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