Capitolo IV

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Nico aveva gli incubi.
Continuava a rivivere l' incidente, con la spietata chiarezza e fantasia dei sogni.
Bianca che cadeva e veniva trascinata per metri, il suo corpo fragile che veniva spezzato, i suoi occhi vitrei.
Quel flebile rantolo.
L' ultima parola che lei aveva pronunciato.
Nico.
Il ragazzino non voleva dormire, non voleva rivedere quelle stesse immagini ogni notte.
Ma la cosa che davvero non sopportava era svegliarsi.
Svegliarsi e scoprire che era tutto vero, che lei non c' era più.
Era tutto un incubo infinito, dal quale sapeva di non poter uscire.
Ma c' era e ci sarebbe sempre stata quella minima speranza che, un giorno, si sarebbe svegliato.
Che un giorno, Bianca sarebbe venuta nella sua camera, a scrollarlo come ogni mattina, dicendogli di andare a scuola.
Che un giorno avrebbe rivisto il suo sorriso incoraggiante.
Che un giorno, scoprisse fosse stato tutto solo un orribile sogno, un sogno dal quale era riuscito a fuggire.
Ma era la realtà, nella sua disperata e degradante chiarezza.
E non si può scappare di fronte alla realtà.
Perciò Nico si arrendeva e si limitava a sopravvivere ogni giorno.
Si svegliava nel cuore della notte, febbricitante e urlante.
I primi mesi dopo la morte di Bianca, Ade li aveva passati a cercare di penetrare nella dura corazza che il figlio aveva creato attorno a sé.
Accorreva sempre, quando si accorgeva che Nico aveva avuto un incubo, ma lui non lo faceva entrare.
Chiudeva la porta a chiave ogni sera, non voleva che il padre lo raggiungesse.
Non voleva essere ascoltato, confortato, capito dalla persona che riteneva più responsabile per la morte di Bianca.
Oltre a sé stesso.
Nico sapeva che la sorella era morta anche per colpa sua.
Lei non era attenta.
Se solo avesse evitato di litigare con lei, se solo avesse smesso di lamentarsi, se solo l’ avesse trattata come la sorella che era…
Se solo…
Ma non era andata così.
E Nico non se lo sarebbe mai perdonato.
Ma Ade… suo padre era ancora il più diretto responsabile.
Perché Bianca era ancora viva!
Lei respirava ancora con quel tubo in gola, il suo cuore batteva attaccato alla macchina…
Ma Ade aveva fatto interrompere il coma, aveva fatto scollegato tutti quei macchinari che la tenevano in vita.
Era lui ad averla uccisa.
“Non c’ è più nulla da fare, Nico… Lei è già morta”
***
Nico scoprì di avere rimediato solo molti, dolorosi lividi, ma niente di più grave.
Perciò riuscì a reggersi in piedi e ad uscire dall’ infermeria solo un po’ zoppicante, buttandosi distrattamente lo zaino sulle spalle, con un gemito di dolore.
Visto che era già maggiorenne, l’ infermiera non aveva neanche dovuto chiamare Ade, cosa che rincuorò molto il ragazzo.
Si avviò lentamente verso la fermata dell’ autobus e lo riuscì a prendere senza grandi difficoltà, anche se appena salito si voltarono diverse persone a guardarlo.
I tirapiedi di Brian lo avevano colpito ripetutamente anche sul viso ed era certo di avere un aspetto orribile con un occhio pesto e la guancia opposta di una sgradevole sfumatura violacea.
Abbassò istintivamente lo sguardo, tirandosi su il cappuccio della felpa scura e mettendosi le cuffiette alle orecchie per estraniarsi da tutto e da tutti.
When you feel my heat
Look into my eyes
It’s where my demons hide

Nico canticchiò nella propria testa il testo che ormai conosceva a memoria e in pochi minuti arrivò alla sua fermata.
Così scese velocemente dal bus e si ritrovò davanti all’ obitorio.
***
“Che diavolo ci fai qui?” chiese irritato il ragazzo, allontanandosi di poco dal motore che stava aggiustando, per avvicinarsi a Leo.
“Lavoro Beckendorf, quello che fai tu” rispose lui sbuffando e lanciando in un angolo dell’ officina lo zaino logoro.
Il ragazzo gli puntò un dito contro il petto.
“Tu devi studiare, questo è solo un modo per arrotondare, non dimenticarlo” disse guardandolo severo.
Leo distolse lo sguardo e si tolse la giacca  guardandosi attorno per trovare qualcosa da fare.
“Dovresti essere all’ Università, cos’ è successo?” continuò il più grande.
“Nulla, ho solo saltato una lezione” mentì per poi tirarsi su le maniche.
“Quante volte devo dirti di impegnarti nello studio?” chiese Beckendorf improvvisamente adirato.
“Lo so lo so, non farmi la predica! E’ solo un’ ora e ti ho già promesso che ci avrei provato” rispose lui sulla difensiva.
“Lo sai perché lo faccio vero? Lo sai perché ti assillo ogni giorno? Tu devi studiare e trovarti un lavoro, un lavoro migliore di questo” disse accennando all’ officina.
Leo strinse i pugni mordendosi nervosamente il labbro.
“Beck tu ci lavori! Mia madre ci lavorava! Dimmi cosa ci sarebbe di male!” disse fuori di sé, riprendendo una discussione tra loro che si protraeva ormai da anni.
“Leo basta! Te l’ ho già detto più e più volte, tu meriti un lavoro migliore. Senza contare i sacrifici che stiamo facendo per mandarti all’ Università!” rispose il ragazzo più grande.
Ogni volta che discutevano, il minore doveva arrendersi di fronte a questa spietata chiarezza.
Elena e Beckendorf facevano sacrifici su sacrifici per permettergli di andare a scuola e non poteva ribattere.
Ma Leo era infuriato, non gli importava più nulla.
“Non ve l’ ho chiesto io! Non sono stato io chiedervi di fare tutti questi sacrifici per me! A me non importa, state solo sprecando il vostro il tempo!” urlò, pentendosi subito dopo di quello che avesse detto.
Il ragazzo più grande non mostrò altro che indifferenza.
“Vattene” sibilò dopo qualche secondo di tensione, il tono che tradiva la sua fermezza.
“Beck scusa non volevo dire…” cominciò Leo tentando disperatamente di scusarsi.
“Ti ho detto vattene a casa!”
***
“Ma cosa ti è successo?” chiese Will con una vena di preoccupazione nella voce.
Nico, che stava per incidere il corpo di un uomo per poi asportarne il cuore, non si voltò nemmeno e tirò ancora più su il cappuccio, per coprire i lividi.
Mentre stava per appoggiare il bisturi sul petto del cadavere, l’ altro ragazzo gli prese la mano fermandolo e costringendolo a voltarsi.
Gli tirò via il cappuccio della felpa rivelando gli ematomi che cospargevano il viso del minore, con un’ espressione atterrita.
Nico fece una smorfia dandogli le spalle e coprendosi di nuovo.
“Non sono affari tuoi Solace” sibilò infuriato, per poi concentrarsi sul corpo dell’ uomo steso davanti a lui.
“Mio dio ma chi ti ha fatto questo?” continuò l’ altro imperterrito.
“Lasciami in pace” rispose glaciale il ragazzo,incidendo la pelle del cadavere.
“Nico lo sai che sono un medico, non puoi chiedermi di lasciarti in pace!” disse Will alzando la voce e attirando l’ attenzione di qualche altro chirurgo che stava lavorando.
“Se non abbassi la voce giuro che la prossima volta che entri qui dentro sarai steso su uno di questi lettini, sono stato chiaro?” sussurrò il ragazzo guardandolo furente, gli occhi che sembravano ancora più scuri del solito.
“Vieni” continuò il maggiore prendendolo per un braccio e trascinandolo, sotto lo sguardo confuso degli altri medici, fino ad una stanza adiacente, ancora vuota tranne che per qualche lettino e del materiale medico.
Nico cercò di divincolarsi, ma la presa di Will sul suo braccio era ferrea ed era certo meno forte dell’ altro ragazzo.
Il maggiore lo costrinse a sedersi su una bassa sedia nell’ angolo della stanza, inginocchiandosi di fronte a lui e scoprendogli di nuovo il viso, stavolta con un’ espressione contrita.
Il ragazzo fece per alzarsi e mandarlo al diavolo, ma Will non lo lasciò.
Si allungò per prendere dal muro la piccola cassetta di pronto soccorso e ne tirò fuori della garza e del disinfettante.
“Sono già stato in infermeria, sto bene” disse Nico stringendo i pugni.
“Già e non ti sei nemmeno accorto che il taglio sulla guancia ha ripreso a sanguinare” rispose il maggiore tagliando qualche pezzo di garza e passandogli del cotone intriso di disinfettante sul viso.
Il minore sussultò per il bruciore e no, non si era accorto che si era riaperto il taglio.
Stupide scarpe con i tacchetti.
“Sta fermo, non ti farò male” disse Will applicandogli un piccolo pezzo di garza e fermandolo con del nastro per ferite.
“Lo so, non sono un tuo paziente Solace!” sbottò Nico infuriato.
Il maggiore lo guardò severo e finì la medicazione.
“Per quanto mi riguarda, invece lo sei”
“Ora cosa vuoi? Che ti ringrazi? Non saresti il primo oggi” disse il minore con una smorfia.
“Non voglio niente, spero solo che questa sia l’ ultima medicazione che ti dovrò fare”
“Lo spero anch’io” sibilò Nico per poi alzarsi e finalmente tornare nell’ altra stanza, a continuare il proprio lavoro.
***
Erano passati pochi mesi dalla morte di Esperanza e Leo non capiva.
Non capiva perché fosse diventato ancor più di prima un bersaglio dei bulli, non capiva cosa ci guadagnassero, non capiva le loro motivazioni.
Perché mai qualcuno dovrebbe prendere di mira uno più debole?
Insicurezza.
Sì, dopo molti  mesi e molti lividi, il ragazzo aveva capito.
I bulli erano dei ragazzi insicuri… di loro stessi, della loro vita, delle loro idee.
Erano ragazzi che volevano dimostrare di essere forti.
Di essere i migliori.
Ragazzi che si riducevano a picchiare i più deboli per confermare il proprio dominio.
E più qualcuno era debole, più loro guadagnavano prestigio.
Più qualcuno veniva deriso, schernito, picchiato, più il responsabile acquistava potere.
E Leo sapeva di essere debole.
Era un ragazzino basso, gracile, privo di vera forza fisica.
Ma era debole anche il suo carattere.
Aveva perso sua madre, gli sembrava che il mondo gli fosse caduto addosso, sulle sue spalle gravava il peso dei sensi di colpa.
Ma non voleva più essere il bersaglio dei bulli, voleva smettere di essere considerato la vittima.
Non era forte, ma Leo era intelligente.
Sì, era furbo.
Non poteva cambiare le cose, i bulli ci sarebbero sempre stati.
Il debole sarebbe sempre stato preso di mira.
Ma  sapeva di poter riuscire a passare dalla parte del vincitore per una volta.
Sapeva di poter diventare uno di loro.

***
Leo si allontanò velocemente dall’ officina.
Le mani gli tremavano, gli occhi erano già lucidi.
Come poteva averlo detto davvero?
Il ragazzo si sedette sul bordo di un marciapiede, tenendosi la testa fra le mani.
Come poteva aver detto quelle cose a Bekendorf?
Il suo fratellastro, il ragazzo che lo aveva sostenuto per anni, che lo aveva spronato a diventare il meglio che potesse essere, che aveva sempre creduto in lui, che lo aveva sempre aiutato.
Il ragazzo che, la sera di pochi anni prima, gli aveva salvato la vita convincendo sua madre a prenderlo in affidamento.
Doveva tutto a lui e a Elena.
Loro avevano fatto dei grandi sacrifici e lui li aveva  denigrati in quel modo meschino.
Leo non riuscì a frenare la prima lacrima.
Da quanto non piangeva?
Ormai non se lo ricordava nemmeno più.
Semplicemente non poteva piangere.
“Ormai tanto all’ Università ti sei già rovinato” pensò sorridendo amaramente e passandosi una mano sulla guancia umida.
Risa.
Leo era certo che la via fosse vuota fino a qualche secondo prima.
Alzò la testa di scatto, guardandosi attorno.
“Guarda un po’ chi si rivede!”
Altre risa.
Il ragazzo strinse i pugni e si alzò velocemente, guardando atterrito Brian e i suoi tirapiedi.

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