2. Francesca

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Quando, finalmente, nacque Francesca, i nostri genitori vollero che la vedessi prima di tutti gli altri parenti e amici; appena la vidi, inclinai il capo e chiesi il suo nome. Nei giorni successivi chiesi perché non parlava/camminava/mangiava/ecc... come me. Fu forse così che le trasmisi la mia curiosità per ogni minima cosa.

Quando divenne padrona della lingua, cominciò a indicare con un ditino tremolante ciò che voleva conoscere, poi mi guardava negli occhi e diceva "Ale, perché?" o "Ale, come si chiama?", inclinando la testa in attesa della mia risposta.

Era sempre stata una bambina taciturna, timida, ma buona e graziosa, con due occhioni curiosi che guardavano avidi il mondo. Nella sua testa risuonavano tanti "Perchè?" che aveva timore di chiedere. Mi dava la possibilità di mascherarmi da piccolo maestro.

A quell'epoca ero un bambinetto che non vedeva l'ora di crescere e ribellarsi al mondo, però, nella tranquillità della mia casa, con la mia famiglia e con quel piccolo cucciolo, ero mansueto. Mi avevano insegnato a volerle bene e a proteggerla: la capivo e lei capiva me, avevamo in comune quella fame di sapere tutto delle cose che ci circondano.

Crebbe e, ovviamente, io con lei.

Mentre Francesca aveva appena cominciato le scuole medie, io ero nel pieno delle superiori. Lei si scontrava ogni giorno con ragazzini ancora bambini dispettosi ma che volevano fare i grandi; io con ragazzi spocchiosi e ribelli che si credevano già grandi. Mondi lontani ma molto simili in cui ci sentivamo estranei, eravamo chiusi nei nostri gusci con tutto il mondo contro, per poi cambiare una volta a casa, lì solo eravamo farfalle allegre, io e lei complici in tutto, dagli scherzi per papà ai piccoli pensieri affettuosi per la mamma. Ma la soffitta era il nostro mondo privato in cui raccontarci la giornata, piangere dei dispiaceri, consolarci e fantasticare di un mondo perfetto in cui poter vivere tranquilli senza cattiveria e ipocrisia a circondarci.

La sua adolescenza fu difficile, lei era tanto diversa da quelle ragazzine truccate e poco vestite e dai quei maschiacci volgari che la prendevano in giro perché mancava di forme e malizia. Quando, in quella soffitta, si affacciavano le lacrime ai suoi occhi, la stringevo a me dicendole che era diversa perché speciale e non vuota come tutti gli altri. Le dicevo di tenere duro, di fregarsene delle chiacchiere e di proseguire per la sua strada perché, presto, quel brutto incubo sarebbe finito. Trovò una compagna di viaggio, un'altra ragazzina diversa dalla massa che la sorreggeva nelle ore a scuola e che era diventata la sua migliore amica.

Alle superiori, dunque, si fece le ossa e, lentamente, venne il giorno del diploma: dopo aver visto i quadri con gli esisti dell'esame di Stato venne di corsa da me in ufficio, mi abbracciò forte e mi disse che aveva preso il massimo dei voti. La sera stessa festeggiammo a casa, i nostri genitori erano tanto orgogliosi di lei. Loro si aspettavano questo magnifico risultato e già avevano prenotato un regalo per lei: due biglietti e un intero viaggio per Londra. Poteva liberamente portare con se la sua amica del cuore, ma volle me al suo fianco, ne fui tanto felice.

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