9. Nido

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A Natale tornammo entrambi in Italia per trascorrerlo con la nostra famiglia, era poco più di un anno e mezzo che mancavamo da casa. In quella rimpatriata portò con lei John, era una bella occasione per presentarlo a tutti.

Era il loro primo Natale come coppia, sembravano felici, lui un bravo ragazzo. Non avevo occhi che per Francesca, era come cambiata, maturata, sembrava un fiore sbocciato sotto i raggi tiepidi della primavera dopo aver trascorso un inverno schiacciato dalla neve, lottando con tutte le sue forze per sopravvivere alla rigidità dell'inverno. Era felice.

Lasciai quella casa pochi giorni dopo Capodanno, per immergermi come non mai nel lavoro.

Anche il Natale successivo ci vide tornare di nuovo tutti in Italia.

Questa volta potevo trattenermi fino a metà gennaio, approfittando di ferie arretrate che il capo mi aveva imposto. "Ragazzo mio, per me sei prezioso, va nel tuo Bel Paese, rilassati e ritorna energico, il nuovo anno ha in serbo per noi tante belle e fruttuose novità... Quindi voglio rivederti il 16 gennaio, puntuale e combattivo!" mi aveva detto il boss il 20 dicembre, prima di farmi gli auguri e sequestrami le chiavi dell'ufficio, sapeva che sarei stato capace di sistemare documenti fino a poco prima di partire.

Rivedere mia sorella fu una sorta di shock: provavo ancora un forte sentimento per lei, ancora quell'amore al di là del rapporto fraterno che avrebbe dovuto esserci tra noi; in quegli anni oltreoceano nessuna donna era riuscita a penetrarmi nel cuore quanto lei; il silenzio che ci gravitava attorno marcava ancora di più quanto mi mancava.

La grande differenza rispetto al Natale precedente fu che Francesca e John erano un po' più freddi tra di loro, come avvizziti. Francesca mi sembrava stanca, stressata dal tanto studio. John stava facendo tirocinio in un grosso studio di avvocati e anche lui era come sbiadito. Andarono via subito dopo Capodanno, dovevano tornare ai loro impegni. Però credo che tornarono a Londra un po’ più rilassati rispetto a quando erano arrivati, li vidi salire in taxi tenendosi per mano.

Rimanendo, quando mio padre mi chiese di portarvi gli scatoloni del presepio, dell'albero e di tutte le decorazioni natalizie, dovetti fare i conti con la soffitta.

Mi sentivo come un sopravvissuto alla guerra che, tornato alla sua casa, ne vede solo macerie: un uomo che cammina dove prima c'erano le stanze e accarezza gli spezzoni di muro superstiti, i resti di una porta o di un mobile, tutte le cose acquistate con tanti sacrifici o ricordi di persone care, di cui non era rimasto altro che la cenere.

Camminai sulle tavole di legno dove mi sedevo da bambino a giocare in solitudine e quelle accanto, dove poi venne a sedersi Francesca e dove mi abbracciò mio padre quel giorno in cui la accettai. Quelle stesse tavole, avevano sorretto i nostri corpi quando facevamo l'amore o mentre ci coccolavamo e consolavamo; tavole che avevano accolto le nostre lacrime; accarezzai le travi che ci avevano visti crescere e ridere, che conoscevano i nostri segreti di bambini, adolescenti e giovani adulti. Mi accovacciai difronte alla finestra, travolto da quei mille ricordi, scoppiai in lacrime. Ognuna di esse sembrava una lama che si faceva strada fino al mio cuore, erano anni che tacevo quell'amore, che combattevo contro il dolore di saperla nelle braccia di un altro, che cercavo di convincermi che era meglio così. Ma la amavo da quando era nata, non riuscivo a smettere di farlo, non sapevo non amarla con tutto me stesso in modo disinteressato. Avrei voluto stringerla tra le braccia e dirle di venire via con me, lasciare John che la trascurava, troppo occupato a far carriera, un cieco che non si accorgeva dello stress della sua compagna. "Francesca" avrei voluto gridare, "non è giusto non averti".

Si aprì la botola della soffitta, cercai di asciugare velocemente le lacrime con le maniche del maglione, come un bambino che vuole sembrare forte, ma che in fondo non lo è. Mio padre si avvicinò a me e, con una mano, si appoggiò alla mia spalla per sostenersi mentre si sedeva sul pavimento, mi accorsi di come la sua agilità di un tempo andava svanendo. Mi mise un braccio attorno alle spalle e mi attirò a sè, mi rividi bambino, ma non cercai di sottrarmi a quel contatto.

Mi sorrise "Perché non abbiamo mai messo un divano o delle poltrone qui sopra se ci venivate così spesso?"

Sorrisi anche io "Hai ragione, perché non ci abbiamo mai pensato?"

Mio padre non era mai stato uno che faceva giri di parole, quindi, dopo quell'osservazione, arrivò al punto "Ale, cos'hai? Questa volta non ci sono sorelline in arrivo che potrebbero mandarti via" mi disse, sorridendo dolcemente.

"Papà, quanto ero stupido ad aver pensato quella cosa da bambino... Sto pensando a quanti bei ricordi ci sono qui dentro"

"Ale, però non sono lacrime di gioia" 

"Ma no... è solo che vorrei un po' della spensieratezza di quei tempi... sarà lo stress, non lo so..."

Mio padre mi abbraccio come non faceva da tempo. Capii che, se volevo, potevo smettere di soffrire e trovare anche io la mia felicità. Così come aveva fatto Francesca, anche io potevo, e dovevo, voltare pagina.

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